François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

domenica 14 ottobre 2012

La double vie de Véronique


Intenso, affascinante, enigmatico. Il film del 1991 di Krzysztof Kieślowski contiene in se le linee giuda della poetica del regista polacco, morto prematuramente a 55 anni: la vita è un percorso incomprensibile se privilegiamo un approccio puramente razionale, se applichiamo alla nostra ricerca di senso i soli parametri della logica, trascurando di aprire la mente alle variabili sottese del caso o di una volontà superiore che sembrano nascoste negli avvenimenti quotidiani.

Perché due? Durante lo spettacolo le tocco parecchio e si sciupano…

Il tema trattato è quello del doppio: una ragazza polacca, Weronica, e una francese, Vèronique, pur non avendo nessun legame, sono uguali come gocce d'acqua, hanno lo stesso amore per la musica e la stessa malformazione al cuore. Per una misteriosa corrispondenza, la francese farà tesoro della tragica esperienza dell'altra. Eppure, nella rappresentazione del dramma, il regista si sofferma sul corpo, sulla sua energia e sul suo potere vitale. Il destino, per quanto terribile degli esseri umani, può essere governato dall’istinto e dalla spontaneità dei sensi.

Il 23 novembre 1966 è stato il giorno più importante delle loro vite. È in quel giorno, alle tre del mattino, che sono nate tutte e due, in due città diverse, in due diversi continenti. Tutte e due avevano i capelli neri, occhi verde scuro. Quando tutte e due avevano due anni e sapevano già camminare, una si bruciò toccando il forno. Qualche giorno dopo anche l'altra avvicinò il suo dito al forno, ma all'ultimo momento lo ritirò: pertanto, non poteva sapere che si sarebbe bruciata

Kieslowski affronta la dinamica delle coincidenze e delle opposizioni della fabula a volte indugiando sull’intensità dei sentimenti dei personaggi altre sulle tensioni del mistero come in un thriller. Nondimeno, il suo cinema è fatto di sensazioni. La fotografia è scura, seppiata, rivolta all’introspezione. La composizione privilegia ambienti chiusi e quando si pone in esterno utilizza filtri che deformano gli oggetti e le persone. I suoni sono tratti dalla realtà, in una scena addirittura estrapolati e resi con audio over per enfatizzarne la valenza nel contesto ambiguo rappresentato.

Ma quello che più conta del film è la rappresentazione dell’essere umano (donna o uomo che sia) nel senso carnale e della sua trasformazione fisica e spirituale che passa attraverso la vita e la morte e nell’amplesso – forse – trova la sua espressione più autentica. Vi sono tre scene di sesso: all’inizio della narrazione, nel mezzo e nel finale. In ogni occasione il rapporto sessuale della protagonista (la bella Irene Jacob) segna un passaggio tra una fine e un inizio, tra un mondo e un altro, soffrendo e gioendo al tempo stesso, tralasciando di comprendere quale sia il vero significato della sua sperimentazione fisica o spirituale.

Grande capacità di Kieslowski nel dotare di grazia ed insieme di sensualità l’interpretazione dell’attrice francese, naturale e leggera, capace di rendere con la sua espressività la tensione della messinscena.


Curiosità: il compositore Van den Budenmayer, citato nel film, in realtà non esiste, e la sua musica è opera di Zbigniew Preisner. Kieślowski lo usa sia nel Decalogo 9 che in Tre Colori: Film Blu.

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