François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

venerdì 30 aprile 2010

Deserto Rosso

La vicenda di Deserto rosso, l'ultimo film di Michelangelo Antonioni ha il merito d'una semplicità lineare. Una donna, moglie d'un industriale di Ravenna, in seguito ad un incidente automobilistico, s'è ammalata di nervi. Dire che è nevrotica è dir poco; siamo quasi al limite della follia. La signora soffre soprattutto d'un sentimento continuo di paura. Tutto le incute spavento: la fabbrica del marito, la salute del figlio, la propria solitudine, i rapporti con la gente, la natura e le cose. Capita a Ravenna un giovane industriale alla ricerca di tecnici per impiantare una fabbrica in Argentina. Costui, che pare soffrire anche lui della stessa angoscia, fa un po' di corte alla donna la quale, in un momento di crisi (ha temuto che il figlio si fosse ammalato di paralisi infantile) gli cede. Ecco tutto.
A ben guardare è l'adulterio tradizionale (diciamo così) di tipo borghese. L'adulterio cioè consumato per inquietudine bovaristica. Questo non è nuovo in Antonioni il quale viene dalla borghesia e ne interpreta la crisi. Nuovo semmai è il ricorso esplicito alla nevrosi cioè ad una condizione morbosa che interessa più la medicina che la cultura, con la correzione però di proiettarne i sintomi su uno sfondo, appunto, culturale. Così Deserto rosso è la descrizione d'una nevrosi che, come avviene sovente oggi, s'innesta direttamente nella situazione storica dell'alienazione di origine capitalistica e industriale. Semplice malattia ai tempi di Charcot, la nevrosi, nel film di Antonioni, diventa facilmente condizione umana. Gli è che mentre la nevrosi è rimasta quella che era, la storia o quello che di solito si chiama storia, s'è mossa e l'ha investita d'un significato che un tempo non aveva.
Il paragone con certi film di Bergman potrebbe tuttavia illuminarci sopra il carattere specifico dell'operazione di Antonioni. Si vedrebbe allora che Antonioni è più moderno di Bergman nel senso di rappresentare e far parte d'una società nella quale il processo dissolutivo è più avanzato che in quello del regista svedese. Anche Bergman descrive una nevrosi: ma pur non cadendo in una caratterizzazione clinica di tipo positivistico e conservando le implicazioni culturali, mette una distanza oggettiva di specie naturalistica tra lui e il personaggio. In Deserto rosso, invece, Antonioni s'identifica con la protagonista. In realtà non è il personaggio di Antonioni ad avere paura bensì, sia pure con le attenuazioni e i filtri propri dell'arte, Antonioni stesso. Diremo con questo che Antonioni è nevrotico? Non lo diremo certamente, diremo piuttosto che non c'è in lui né la volontà né l'aspirazione a mettersi fuori della nevrosi, cioè a dare un nome alla crisi storica che purtuttavia egli indica chiaramente come la vera causa della malattia. Con ostinazione Antonioni si tiene dentro i limiti del suo personaggio: vuol farci credere che non ne sa un punto più della sua adultera borghese. In questo modo riesce è vero a sfuggire alla tentazione ideologica: ma rischia però di cadere nell'astrazione d'un continuo stupore di specie onirica.
Nel film di Antonioni ci sono due realtà, quella degli uomini e quella delle cose. Nelle cose è trasferita l'angoscia degli uomini i quali, forse per questo, risultano, rispetto alle cose, svuotati, casuali, descritti in aneddoti di scarsa incisività.
Nessun volto umano in Deserto rosso è così mistico e reale come i pezzi di muro, i tubi, le cartacce e gli altri innumerevoli oggetti sui quali l'obbiettivo di Antonioni indugia con una attenzione meditabonda, luicida, delirante. Gli è che Antonioni vede il mondo attraverso gli occhi della protagonista; e questa mentre ha rapporti nutriti con le cose, non ne ha nessuno con gli uomini. Antonioni non vuole sporcarsi le mani con la psicologia, questa fangosa facoltà soltanto umana; e così si dedica con passione alle cose. Senza dubbio Deserto rosso è il film italiano nel quale il colore è stato adoperato sinora con maggiore eleganza, capacità plastica, maestria: senza dubbio Antonioni non aveva mai fatto dire alle cose, ci si consenta il bisticcio, tante cose. Ma come nelle rappresentazioni della pittura informale e della decorazione musulmana, si direbbe talvolta che in Deserto rosso la figura umana sia di troppo. Tant’ è che le parti più belle sono quelle, come per esempio la sequenza della favola, in cui l'azione, già tenue, s'interrompe del tutto. Monica Vitti è, con bravura e intensità, la protagonista e bisogna riconoscere che la sua nevrosi è credibile e al tempo stesso non compromette la sincerità e violenza del breve rapporto d'amore. Accanto a lei Richard Harris, l’amante, una parte difficile, riesce ad essere molto efficace.
Alberto Moravia
L'Espresso
1/11/1964

Tra figura intera e campo lungo

La notte, di Michelangelo Antonioni (1961), Orso d'oro al Festival di Berlino, Nastro d'Argento e David di Donatello per la regia del miglior film.

martedì 27 aprile 2010

Sul montaggio

Vi possono essere due prospettive per intendere e realizzare un processo di significazione cinematografica: considerare il cinema come rappresentazione della realtà nel rispetto della sua immanente ambiguità, ovvero nel rispetto dell’interpretazione soggettiva (e relativa) che di essa il soggetto definisce; oppure intendere il cinema non come semplice riproduzione del reale, ma come interpretazione dei suoi processi, così da costruire in anticipo il senso di ciò che viene rappresentato sullo schermo, ed in un rapporto per lo più coercitivo nei confronti del spettatore. Così nel primo caso è possibile, con appropriati moduli espressivi, lasciare all’autonomia del soggetto la produzione di senso del reale, mentre, nel secondo, istituire il montaggio come strumento idoneo alla re-interpretazione della realtà, attribuendo centralità alla dialettica delle immagini ed alla produzione di senso che preventivamente si è intesa realizzare.
Si potrebbe allora definire il montaggio interno come tecnica di non-montaggio, laddove la rappresentazione del reale avviene nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali, ovvero nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale; nella realtà nessun avvenimento deve essere dotato di un senso determinato a priori; l’obiettivo è quello di catturare filmicamente l’immanente ambiguità del reale.
Gli strumenti che consentono una lettura naturalistica del reale sono la profondità di campo e il piano sequenza: il P.S. è un piano che da solo svolge le funzioni di una sequenza o scena (mobilità delle forme); con la P.di C. si realizza, invece, la disposizione degli oggetti e dei personaggi su più piani e insieme il loro reciproco interagire (staticità dei contenuti).
Il montaggio connotativo si pone, invece, come creazione di senso su variabili audio-visive. Ciò avviene mediante un’interpretazione del senso del reale; la realtà non come riproduzione meccanica dei fenomeni ma interpretazione dell’articolazione delle sue relazioni interne; il montaggio come produzione di senso, come collisione tra inquadrature e piani (l’uno accanto all’altro, l’uno contro l’altro); il montaggio oltre che come rapporto/conflitto tra piani, come conflitto compositivo all’interno della stessa inquadratura; la produzione di senso anche nella costituzione dei rapporti audio-visivi.
In definitiva, il montaggio dialettico (o connotativo) è un montaggio che si struttura sulla base di un conflitto, che si da in tutta la sua evidenza e il cui fine principale è quello della significazione.
Per S.Ejzenstein il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è in qualche modo un nucleo, una cellula di montaggio, che va soggetta alla legge della scissione con il crescere della tensione del conflitto. Il montaggio è un salto di qualità della composizione interna dell’inquadratura.
L’attrazione è per noi qualsiasi fatto presentato, noto e verificato, inteso come impulso che esercita un determinato effetto sull’attenzione e l’emozione dello spettatore in una determinata direzione, indicata dal fine che lo spettacolo si propone. Da questo punto di vista il film non può limitarsi al semplice far vedere, alla presentazione, cioè, di certi avvenimenti: deve essere, piuttosto, una selezione tendenziosa di eventi, liberi da compiti strettamente narrativi e tali da esercitare sul pubblico un modellaggio psicologico conforme al fine perseguito.
Per altro verso, opposto si potrebbe dire, è possibile sostenere la scelta documentaristica, come espressione della realtà nel suo aspetto causale e inevitabile. In questo senso il cinema vuole provocare un interesse nello spettatore senza artifici o ri-costruzioni “barocche”, in un modo semplicemente “sincero”.
Per Joris Ivens – uno dei più importanti documentaristi della storia del cinema forse – è il “qui e ora” ciò che definisce la cartina di tornasole della sensibilità del cineasta. La camera fissa l’attimo, senza altri accorgimenti.
Eppure, non è solo questo. Il cineasta deve sempre avere presente a che cosa deve servire il film che si sta facendo, perché e per quale pubblico si realizza. Così emblematicamente viene affermato che il cineasta deve avere tre occhi: un occhio guarda la realtà attraverso il mirino della cinepresa; mentre l’altro rimane spalancato su tutto quello che succede intorno alla piccola immagine racchiusa nell’inquadratura. Un terzo occhio, se così si può dire, deve essere rivolto al futuro.

lunedì 26 aprile 2010

Il Cowboy di David Lynch

Cowboy: Salute.....

Adam Kesher: Salute a lei

Cowboy: Serata bellissima!

Adam Kesher: Si.

Cowboy: Vorrei ringraziarla per aver lasciato il suo albergo e aver fatto tutta questa strada per venire ad incontrarmi.

Adam Kesher: Si figuri … cos’ha in mente?

Cowboy: Bene, bene! Ecco un uomo che non vede l’ora di arrivare al dunque. Lei è ansioso di sapere, vero?

Adam Kesher: Secondo lei?

Cowboy: L'atteggiamento di un uomo... l'atteggiamento di un uomo va di pari passo con quello che sarà la sua vita. Lei è d'accordo con questo?

Adam Kesher: Sì.

Cowboy: Lei ha risposto così perché pensava che fosse quello che volessi sentire o perché ha riflettuto su quello che ho detto ed è convinto che sia davvero così?

Adam Kesher: Sono d’accordo con quello che ha detto, convinto

Cowboy: Che cosa ho detto?

Adam Kesher: Che l’atteggiamento di un uomo determina a grandi linee la sua vita

Cowboy: Allora visto che lei è d’accordo… deve essere una persona a cui non interessa molto la vita comoda?

Adam Kesher: E perché?

Cowboy: Lei si fermi soltanto per un secondo e ci pensi. Può farlo per me?

Adam Kesher: Ok. Sto pensando.

Cowboy: No, lei non sta pensando. Lei è troppo impegnato a fare il furbetto per pensare. Io voglio che lei pensi e smetta di fare il furbetto. Potrebbe farlo per me?

Adam Kesher: Senta, lei mi dica dove vuole arrivare? Mi dica cosa vuole che faccia?

Cowboy: Qualche volta c’è una carrozza, quanti guidatori servono per una carrozza?

Adam Kesher: Uno

Cowboy: Allora diciamo che io sto guidando questa carrozza, e se lei corregge il suo atteggiamento può sedere accanto a me...

Adam Kesher: Ok

Occhi ampiamente chiusi

Uno sguardo irrompe d’improvviso, tra i titoli di testa, nella vita quotidiana di una giovane coppia newyorkese, mettendone a nudo la vera essenza, le incertezze, le contraddizioni, fino alle più recondite pulsioni.
I personaggi vengono attirati in un contesto sociale, quello dell’alta borghesia, al quale tuttavia appartengono solo per adozione, perché la storia, prima ancora che sociale, è storia privata, individuale.
Il percorso narrativo della vicenda è segnato da una articolazione che porta a risultati irreversibili: data una certa situazione iniziale di equilibrio, e dati, secondo il modello classico del racconto cinematografico, una serie di eventi di squilibrio, solo apparentemente si ritornerà, nel finale, ad una situazione di ri-equilibrio, perché qualcosa è cambiato, prima ancora che nella vicenda dei personaggi, nel modo di sentire dello spettatore.
Come in ogni altra storia del regista, un tarlo entra nell’impianto razionale prodotto dall’uomo, vi si annida, subdolamente, fino a corroderlo nella più intima costituzione.
E ciò avviene, su due ordini di livelli, tutti e due palesi, eppure, tutti e due, anche, profondamente complessi: la gelosia e la curiosità.
Palesi, perché entrambi questi sentimenti umani segnano, in modo inequivocabile, il tragitto compiuto dai personaggi nella storia; complessi, perché tale tragitto, che è per lo più un procedimento irrazionale, risulta indirizzato verso una meta che sfugge al controllo dell’uomo: l’ignoto dell’animo umano.
Ancora una volta un tema caro al regista: l’uomo “entra” nell’uomo per scovarne la vera natura, ma è costretto ad arrendersi di fronte all’incomprensibile trama della sua mente.
La coppia posta al centro dell’osservazione è una coppia agiata, dinamica, feconda, dove le mancanze dell’uno sono riempite, in modo complementare, dalle qualità dell’altra; eppure, è anche una coppia intorpidita, annoiata, legata alle proprie abitudini.
Il sistema è costituito, ed è oramai autoreggientesi, apparentemente inattaccabile dall’esterno, risulta alterabile proprio nelle sue stesse premesse.
A far saltare l’equilibrio è, infatti, sufficiente una imprevista rivelazione: (la moglie confessa al marito che qualche tempo addietro sarebbe stata disposta a lasciarlo per un altro uomo e, così, a mandare all’aria tutto, matrimonio e giovane figlia “se solo lui mi avesse voluta”).
Un attimo , intenso, fulminante, nel quale si accentrano tutti i desideri e tutte le passioni, è capace a mettere in discussione il progetto di una intera vita, coniugale e individuale.
Da questo momento in poi si innesca il meccanismo perverso della gelosia; è un pensiero ossessivo quello che attanaglia la mente del marito, in grado di spazzare via d’un sol colpo la certezza, prima assoluta, nei confronti della moglie. Quello che rimane, così, è soltanto un’immagine fissa: il momento sessuale in cui la moglie lo tradisce con l’altro uomo.
Questa immagine diventa invasiva, totalizzante, un punto di fuga senza più ritorno. E’ la curiosità tutto ciò che spinge l’uomo nel suo omerico viaggio attorno alla trama sottesa della sua anima, improvvisamente dispersa.
E l’oggettività della realtà viene rimpiazzata dall’irrealità del sogno, senza che un confine netto sia dato da comprendere ai personaggi, e agli spettatori.
Un uomo e una donna si amano, costruiscono una vita assieme, il tempo li stabilizza, la materialità li sostiene, ma c’è qualcosa che non può essere controllato, gli istinti più profondi, gli aspetti più nascosti della psiche, e allora tutto diviene relativo, tutto tremendamente incognito.
E a questo punto viene inferto il colpo più duro, che mai poteva essere dato dal regista: l’unica cosa per cui vale la pena vivere, l’amore, viene destrutturato, reso nei suoi termini essenziali.
Il sesso, le passioni, il fascino della novità, il gusto del diverso, fino alle più basse perversioni carnali, tutto è amore, o tutto non è amore?
Il film finisce con uno scambio di battute tra i due protagonisti che non lascia scampo, che spezza il fiato, che non consente di tornare indietro:
Bill(il marito): Cosa pensi che dobbiamo fare?
Alice(la moglie): Penso che prima dobbiamo ringraziare il destino, ringraziarlo per averci fatto uscire senza alcun danno dalle nostre avventure, sia da quelle vere che da quelle solo sognate…l’importante è che ora siamo svegli, e spero tanto che lo resteremo a lungo.
Bill: Per sempre?
Alice: no, non usiamo questa parola, mi spaventa.
La m.d.p. indugia per un poco sul p.p. della donna, e ancora lei: C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare il più presto possibile…
Bill: cosa?
Alice: …scopare…
Lo stacco è netto, e titoli di coda lasciano infastiditi, irritati, toccati nelle più intime convinzioni.
Ma è una provocazione… è il cinema di Kubrick.