François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

mercoledì 14 dicembre 2011

John Carpenter’s The Ward



Nel 2010 John Carpenter torna al cinema horror a circa dieci anni di distanza dal suo ultimo lavoro (Fantasmi da Marte). Il film è stato presentato in anteprima il 13 settembre 2010 al Toronto International Film Festival, mente in Italia la distribuzione è avvenuta nell’aprile 2011 a cura della BiM Distribuzione.

North Bend, Oregon, 1966. Una ragazza, Kristen (interpretata dalla bellissima Amber Heard), presumibilmente in fuga da qualcuno, raggiunge e da fuoco ad una casa. Catturata dalle Autorità viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico, o meglio in suo un reparto speciale. La ragazza è coperta di lividi e tagli e non ha alcuna memoria degli eventi precedenti il suo ricovero. Le altre pazienti Iris (Lyndsy Fonseca) Sarah (Danielle Panabaker) Emily (Mamie Gummer) e Zoey (Laura-Leigh) non riescono a fornirle delle risposte, e Kristen si rende conto ben presto che il reparto nasconde dei terrificanti segreti. Quando le altre ragazze iniziano a sparire una ad una, Kristen deve trovare un modo per fuggire da quel luogo sinistro e pieno di misteri, ritrovandosi più volte faccia a faccia con un essere misterioso e orripilante che ce l'ha con lei apparentemente senza motivo.

A circa trenta anni di distanza dal film che ha lanciato John Carpenter nella storia del cinema (Halloween - La notte delle streghe del 1978), l’ultimo film del regista americano contiene interessanti sviluppi di scrittura cinematografica, oltre che il consolidamento del genere horror nel quale ambito la pellicola si inserisce.

Pur partendo da alcuni elementi comuni, la persecuzione da parte di un misterioso assassino e la morte delle sue vittime che sono tutte giovani e belle donne - in Halloween Laurie (Jamie Lee Curtis), Annie (Nancy Kyes) e Lynda (P.J. Soles) -, l’ultimo lavoro di Carpenter giunge ad un diverso approccio nella narrazione horror, capovolgendo l’angolo visuale in cui è posto lo spettatore.

In Halloween, lo spettatore è posto dietro lo sguardo dell’assassino. La macchina da presa ci mostra – con riprese in soggettiva – quello che vedrebbero gli occhi dell’assassino, senza tuttavia svelarci la sua vera identità. In The ward lo spettatore è situato in una posizione diversa e distaccata rispetto all’assassino. Anche in questo caso non è dato vedere – se non per brevi momenti – la sua identità, ma la rappresentazione dell’assassino non avviene più in termini soggettivi, ma attraverso le sue dinamiche interiori, o più precisamente attraverso le sue proiezioni psichiche.

In altre parole, il mistero dell’assassino ci viene mostrato attraverso la sua dimensione psicanalitica, nel caso di The ward attraverso i reconditi schizofrenici della protagonista del film, e ciò seguendo un modello di sceneggiatura oramai consolidato da anni nel cinema americano.

Pensiamo ad alcuni precedenti illustri come Memento diretto nel 2000 da Christopher Nolan, A beautiful mind di Ron Howard (del 2001), Spider di David Cronenberg (2002) tratto dall’omonimo romanzo di Patrick McGrath, fino al recente Shutter Island diretto nel 2010 da Martin Scorsese con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley, Michelle Williams, Emily Mortimer e Max von Sydow.

Anche in questi casi la sceneggiatura si scinde tra la realtà rappresentata allo spettatore e l’allucinazione della mente deviata dei rispettivi protagonisti: così in Memento i ricordi di Leonard Shelby si confondo con un presente che non ha origine e fine; in A beautiful mind, il talento matematico di John Nash si scontra con i complotti spionistici della guerra fredda nel tentativo di risolvere le missioni organizzate da William Parcher; in Spider, l’infanzia di Dennis "Spider" Cleg è corrotta dal complesso edipico con la madre e neppure l’età adulta è in grado di celarne gli esiti disastrosi; in Shutter Island, l’agente federale Edward "Teddy" Daniels insegue all’infinito la possibilità di fuggire dalla tragica morte dei figli uccisi da sua moglie.

Ma veniamo all’ultimo film di John Carpenter.

Viene messa in scena l’esperienza di una ragazza affetta da schizofrenia. Già dai titoli di testa viene rappresentato il contenuto essenziale del film, ovvero la rottura e frammentazione della personalità schizofrenica.

Il termine schizofrenia, infatti, deriva dal greco σχίζω (schizo, divido) e φρενός (phrenos, cervello), 'mente divisa'. Il criterio DSM classifica ad oggi cinque forme principali di schizofrenia: la schizofrenia catatonica; la schizofrenia ebefrenica; la schizofrenia paranoide, la schizofrenia semplice e quella indifferenziata.

Per quel che concerne il tipo paranoide, tra i sintomi principali ricorrono idee fisse (deliri) che includono le allucinazioni (quali disturbi della percezione).

Il delirio (quale disturbo del contenuto del pensiero) è un convincimento derivante da un abnorme errore di giudizio, impermeabile alla critica, spesso a contenuto bizzarro, talvolta sostenuto da allucinazioni uditive e/o visive. Corrisponde ad un modello mentale della realtà svantaggioso, dal momento che le decisioni prese in base ad un delirio conducono a comportamenti inadeguati e quindi ad un adattamento di livello inferiore. Il delirio, tuttavia, non viene considerato dal soggetto come patologico, perché è assolutamente identico alle altre idee. I contenuti del delirio possono essere vari: la persecuzione, il riferimento, la gelosia, il nichilismo, il controllo, l’ipocondria, la religione, la grandezza.

Il tipo schizofrenico è caratterizzato, poi, dal disturbo del controllo degli impulsi, quale incapacità di resistere ad un impulso o ad un desiderio che si presenta come impellente ed irrefrenabile. Possono essere identificati in: cleptomania (bisogno patologico e irrefrenabile di rubare); disturbo esplosivo intermittente (comprende una varia gamma di impulsi aggressivi e violenti nei confronti di persone o cose); piromania (produrre incendi con intenzionalità); tricotillomania (insopprimibile azione di strapparsi capelli o peli del corpo).

La sintesi del lavoro di Carpenter è racchiusa in un luogo, il reparto di un ospedale psichiatrico, da intendersi oltre che come luogo della cura della psiche deviata e alterata, come il risultato tremendo delle torture che hanno dovuto subire nel corso dei secoli le persone affette da disturbi psichiatrici.

Ebbene, tralasciando di entrare nello specifico degli eventi narrati, l’ultimo film di Carpenter si cimenta nella rappresentazione visiva (-cinematografica) della schizofrenia, in un modo che, pur mantenendo le radici del genere horror slasher avviato proprio dallo stesso regista negli anni settanta, aggiunge nuove tecniche di linguaggio e sviluppa un’abile manovra di aggiramento dello spettatore che solo al termine della pellicola sarà in grado di dissipare la mistificazione scenica.

martedì 6 dicembre 2011

“Pina” (di Wim Wenders)


Nelle sale è uscito “Pina”di Wim Wenders. Il lavoro è un atto d’amore del regista per la coreografa Pina Bausch ed il suo Tanztheater.
Negli anni ’70 Pina Bausch dà vita e fonda in Germania il Wuppertal Tanztheater,scardinando per sempre il linguaggio della danza accademica europea e della danza contemporanea americana. Il danzatore è contemporaneamente anche attore. Nessun gesto nel teatro danza della Bausch è privo di urgenza e senso ma sintesi perfetta di tutti gli elementi teatrali.
La sua presenza di danzatrice,coreografa e attrice si presentava esile e minuta,ossuta ma ben lontana dai clichè della ballerina eterea della danza classica. La Bausch è donna. Femminile nei suoi silenzi,nei gesti senza orpelli leziosi dei codici accademici. La ripetitività dei gesti nei suoi lavori,è insieme tormento,poesia,essenza sincera del teatro che destruttura il contesto storico e lo reinventa.
Il suo “Mood”coreografico è stata una vera e propria rottura nel panorama teatrale mondiale.
Nel 1985 Wim Wenders vede il capolavoro della Bausch “Café Müller”. Wenders e “Pina”si conoscono,si stimano e da li nasce l’idea di dar vita ad un progetto insieme che inizia a prendere forma nel 2008. Nel 2009,la Bausch muore e questo film ha la forza visionaria e la poesia fotografica di restituirci l’intensità del suo lavoro.
Wenders ci prende per mano e ci porta tra i tavolini di “Café Müller,”ci fa accarezzare “Il drappo rosso”de “La Sacre du Printemps”,nuotare sotto gli influssi lunari di “Vollmond”,oppure tra i ritmi della quotidianità tragicomica,attraverso la frenesia dei corpi in “Kontakthof.
I danzatori raccontano la loro esperienza con la Bausch attraverso il linguaggio universale del corpo. Attraverso i loro visi e con le parole, rivelano l’ incontro con una donna che dei suoi interpreti ne metteva in scena l’anima nuda.
Wenders proietta l’universalità dei lavori coreografici del Wuppertal Tanztheater in contesti urbani. Il linguaggio fotografico è talmente evocativo da realizzare una coreografia parallela alla danza stessa. Il regista ne diventa nuovo coreografo. Attraversa e accarezza i danzatori,raccontandoci come faceva Pina Bausch,tutti i colori della vita. (Antonella Putignano)

mercoledì 30 novembre 2011

Il cinema secondo Lorenzo Ghezzi

In questi giorni esce eRi pote, la quattrocchia volante
che è stato gioia di grandi e piccini e torna de moda la maggia
la maggia bianca, oppure la maggia negra
e si apre subito un dibattito su che è che non è maggia,
vivemo in tempi cioè in cui la maggia esiste oppure
s'è fermata ar medioevo, occipitale...dishamo.
Torna quindi, il gufo demmerda, la scopa volante che gira su sè stessa
e se sà dove andrà a finire, come il proverbiale cetriolo di azzen cristian andersen.
Esiste quindi la magia, lo sa benissimo il tifoso giallorosso,
vittima de un campionato de malocchio, co er striscione bruciato, er pupone sagrificato
nella notte de luna piena.
Lazio che vince... come è possibile?
E' incredibile. E' un fatto naturale?
Io dico de no, ma la scienza non puo' spiegare tutto
e ...allora ben venga il nostro eri pote, mago in erba
ma erba de quella bona, quella che te fà volà.
cheee... contro il malocchio, quindi, una magia divertente e giocosa,
ricca di effetti diggitali, effetti speciali come la sequenza
bellissima co er mago contro il malocchio, in volo, se gratta li cojoni...
sequenza importante... e cinema di intrattenimento, quindi,
come 'na zecca che te se attacca e non te fa annà via
questa fortunata saga, eri poter, mago fumato,
è tratta da spilbe, che ha smesso da fa eeei pupazzi e
s'è buttato su ebbrei de guera, mentre l'amico suo,
giorgio luca, ancora insiste co' e guere stellari,
che ti abbiocchi alla grande, tranne la sequenza der granchio cameriere
che la trovo una sequenza da... antognologgia...
...bbbuonasera...


martedì 15 novembre 2011

Lo stato delle cose



Il cinema riflette sul cinema. Si potrebbe dire metacinema, ma al tempo stesso la riflessione è più circoscritta di quello che può sembrare. Il campo prescelto è quello dell’inquadratura fotografica, dove tutto è contenuto nel rettangolo della pellicola, e le riflessioni speculative per quanto complesse rimangono confinate all’esterno.

Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge) è un film di Wim Wenders del 1982, vincitore del Leone d'oro al miglior film della Mostra del cinema di Venezia.

Portogallo, febbraio 1981, un albergo isolato in riva al mare. Non è ancora iniziata la stagione balneare: ci abita un team che fa riprese cinematografiche. Due anni prima una burrasca ha danneggiato considerevolmente l'albergo; la piscina e parti dello stabile sono semidistrutti. Per questo motivo l'hotel è stato scelto dalla troupe: il film rimanda al classico di fantascienza "The Most Dangerous Man Alive" di Allan Dwan. Dopo due settimane di riprese, però, è terminato il denaro per il proseguimento della realizzazione del film: si attende con ansia il ritorno del produttore, rimasto a Los Angeles. Il regista (Fritz) decide di andare a Hollywood, dove cerca e infine trova il produttore, che si nasconde perché teme di essere ucciso. Fritz non crede a questa storia, ma improvvisamente fanno la loro comparsa i killer: egli finirà per essere assassinato nel modo più impensato.

"Lo stato delle cose" è forse il lavoro più interessante di Wenders degli anni '80, autentica riflessione sul cinema e sui bisogni dell'artista. A ben vedere, si tratta di un film stratificato, i cui temi e la loro trattazione emergono gradualmente, iniziando dalle cose concrete per poi addentrarsi nell'astratto, nel non tangibile, nell'impulso che determina la nascita e la morte del processo creativo.

La prima riflessione si incentra sulla differenza tra il cinema americano ed il cinema europeo, e sui differenti bisogni di cui si nutrono. Il primo vive di azione, movimento. Il cinema americano è un cinema del fare, un cinema che crea il tempo del racconto, che lo plasma a suo insindacabile giudizio come se fosse un piccolo dio alle prese col suo piccolo universo. Il cinema europeo, invece, è un cinema che cerca non solo di raccontare la vita, ma di emularla, copiarla trasferendone la temporalità su pellicola. Non è un caso quindi, che tutta la prima parte del film (quella ambientata in Portogallo), sia giocata sui tempi dilatati, sull’approfondimento dei personaggi, sulla descrizione del vuoto, della noia, dell'attesa di qualcosa che non arriva mai, in cui si vede riflesso il cinema di Michelangelo Antonioni. La seconda parte invece sblocca la non-narrazione per affondare i denti nel racconto, tirando le fila (anche tematiche) del film, mostrandoci più azione e movimento, entrambi vuoti e malinconici, quasi una panoramica decadente sull'impossibilità di raccontare la vita attraverso il cinema.

Si tratta di due luoghi, ovvero di due modi di vedere le cose ed il loro stato. In questo modo l’analisi del linguaggio cinematografico si riflette sui paesaggi rappresentati. In Portogallo, il paesaggio è il luogo della visione, dell'impulso, un luogo dove scaturisce la creatività e dove la creatività nasce e si sviluppa, mentre la Los Angeles dipinta da Wenders è un luogo triste e desolato, quasi una scenografia duplicata all'infinito che scorre imperterrita dai finestrini della roulotte del produttore.

C'è infine un’immagine che permane per tutto il film. È il fantasma del film che Fritz sta girando in Portogallo, e che non riuscirà mai a portare a termine. Questo è l'altro grande tema della pellicola: il desiderio mai raggiunto, il sogno mai realizzato, un film che non ha modo di nascere, e per conseguenza una storia che non riuscirà mai ad essere narrata.

Eppure, nonostante l’impossibilità (narrata) di mettere in scena una storia, l’esperienza ha reso il film di Wim Wenders di buon auspicio per un nuovo futuro “grande” regista.

Si racconta infatti che alla fine della lavorazione de "Lo stato delle cose", Wim Wenders avanzò qualche caricatore di pellicola, che il regista tedesco regalò al compositore della colonna sonora del film. Il compositore era Jim Jarmusch e il film che nacque dalle ceneri de "Lo stato delle cose" fu proprio il cortometraggio che poi si trasformò nell'esordio nel cinema del regista americano, "Stranger than paradise".

domenica 23 ottobre 2011

Cinema a confronto

Per raggiungere il suo obiettivo il linguaggio cinematografico può seguire due modalità operative: una comunicazione che privilegia l’immagine ed il suo effetto connotativo, mediante il ricorso alla scelta compositiva (fotografia) o all’assemblaggio degli elementi visivi (montaggio); ovvero una comunicazione legata al testo che scorre sotto gli occhi dello spettatore senza particolari difficoltà di analisi, dove la cura stilistica cede il passo all’elaborazione degli eventi rappresentati (sceneggiatura) o alle capacità di coinvolgimento degli interpreti (recitazione).

Forse, nella storia del cinema, solo pochi autori sono stati in grado di seguire contemporaneamente queste due direttive, valorizzando tutti gli elementi utili nella comunicazione cinematografica. Eppure, anche focalizzando l’attenzione su lavori che hanno dato preferenza all’una o all’altra soluzione stilistica, è possibile constatare come la messa a punto anche di una sola delle due opzioni non sia sempre adeguata ed efficace.

Credo significativo il confronto tra due pellicole uscite sullo schermo nel 2010. Non lasciarmi (Never Let Me Go) diretto da Mark Romanek su una sceneggiatura scritta da Alex Garland, basata sull'omonimo romanzo del 2005 di Kazuo Ishiguro, con Carey Mulligan, Andrew Garfield e Keira Knightley. 6 giorni sulla Terra diretto da Varo Venturi; sceneggiatura di Varo Venturi M. Luisa Fusconi e Giacomo Mondadori, fotografia di Daniele Baldacci, con Massimo Poggio, Laura Glavan, Marina Kazankova, Ludovico Fremont, Francesca Schiavo e Pier Giorgio Bellocchio.

Entrambi i lavori si sono cimentati con un testo di fantascienza. Entrambi, pur con le caratteristiche tipiche del cinema americano (Non lasciarmi) e del cinema italiano (6 giorni sulla terra), hanno tentato una rielaborazione del genere. Eppure, il risultato a cui le due pellicole giungono è davvero diverso, eccellente nel primo caso, davvero deludente nel secondo.



Kathy, Tommy e Ruth sono tre alunni di Hailsham, un collegio immerso nella campagna inglese e completamente isolato dal mondo esterno. La loro educazione è affidata a dei tutori, che impartiscono loro lezioni di arte, storia e letteratura e incoraggiano la loro creatività: i loro lavori migliori vengono infatti selezionati dalla misteriosa "Madame" per essere conservati nella sua "galleria". In questo ambiente, apparentemente idilliaco, i tre ragazzi crescono sviluppando un legame che durerà per tutta la vita: Ruth e Kathy stringono una forte amicizia, mentre Tommy, pur nutrendo grande simpatia per Kathy, si fidanza con Ruth. A sedici anni, completati gli studi, i tre ragazzi lasciano Hailsham per andare nei "Cottages" a completare la loro educazione per diventare prima "assistenti" e poi "donatori"; questo infatti è il loro destino sin dalla nascita: sono dei cloni umani creati in laboratorio per donare i propri organi agli umani malati. Nonostante questo i tre amici continuano a studiare e sperare in un futuro diverso, che permetta loro di trovare un lavoro normale, il vero amore, e magari un rinvio delle donazioni. L'atmosfera però non è più quella spensierata dell'infanzia, e i rapporti fra di loro iniziano a logorarsi sinché dopo un litigio Kathy non decide di abbandonare i cottages e gli amici e diventare assistente.

La storia è ambientata in un presente alternativo distopico (orwelliano si potrebbe dire) ed è raccontata sotto forma di flashback dalla protagonista del libro, Kathy. La struttura è tripartita, un epilogo (l’infanzia dei protagonisti ad Hailsham), uno sviluppo (l’adolescenza e gli amori vissuti nei cottages) un finale (con l’avvento dell’età adulta, i protagonisti della storia prendono consapevolezza del loro destino: sono condannati a morire giovani, eppure non si ribellano, non lottano, forse sognano e sperano appena in un rinvio. Ma nonostante questa consapevolezza non possono fare a meno di innamorarsi, di scrivere, di fare dell’arte a modo loro, di scrutare il mondo). L’andamento dei tempi è ben giocato, il contesto scenico valorizzato da un’ottima fotografia (sobria e mai velleitaria), con una predilezione per la geometria dei contesti rappresentati e movimenti di camera accuratamente celati. L’accompagnamento musicale è appropriato e l’interpretazione dei protagonisti, forse, il vero strumento comunicativo del film. Ridono, giocano, piangono, si disperano i tre protagonisti-attori sono sempre capaci di trasmettere l’essenza dell’oggetto rappresentato.

Si può dire un lavoro eccellente, coinvolgente e davvero ben girato. Nonostante la profondità del romanzo a cui si ispira, ed alla quale non è possibile non attribuire l’effettiva riuscita dell’adattamento cinematografico, il film riesce bene in tutte le opzioni stilistiche più sopra rammentate.



Il professor Davide Piso è un intraprendente scienziato e ufologo che studia da anni il fenomeno dei rapimenti alieni (o "alien abduction"), giungendo alla conclusione che alcune razze extraterrestri presenti da millenni sulla terra, impiantano le proprie personalità nel cervello degli umani rapiti per usarli come contenitori da abitare ed usufruire di quell’ambita energia che lui definisce “anima”. Agendo con un ingenuo e passionale ideale di salvare l’umanità, Davide, assieme alla sua capace e fedele equipe, ha sviluppato una straordinaria e temeraria tecnica ipnotica con la quale oltre a far rivivere ai rapiti le loro spaventose esperienze, riesce a comunicare con i parassiti alieni, per poi scacciarli dal corpo che occupano. Tutto cambierà quando entrerà in scena Saturnia, una seducente diciottenne che si dichiara essere un’addotta, la quale gli chiederà aiuto usando un’ambigua seduzione a cui Davide, in crisi per le serie difficoltà provocate dalla sua “scomoda” attività, non saprà resistere. Il Prof. Piso si ritroverà allora di fronte ad un caso imprevisto, più simile ad una tradizionale possessione demoniaca: una volta messa sotto ipnosi, la ragazza resterà nello stato di trance, lasciando il posto a una potente entità aliena discendente da remote e divine dinastie mesopotamiche, Exabor, il quale afferma di essere il primo essere alieno in grado di poter abitare definitivamente nel corpo di un essere umano per poter poi condurre la sua specie all’incarnazione definitiva.

Presentato dal regista, Varo Venturi, come un’opera di real-scienza (da non confondere con la banale fantascienza), “6 giorni sulla Terra” ha partecipato nel 2011 alla rassegna di cinema indipendente italiano al Macro di Roma. Realizzato con un budget limitato, il film è stato in parte ispirato dai reali studi del dottor Corrado Malanga, che tramite sedute d’ipnosi sostiene di aver raccolto testimonianze di entità aliene inserite nei corpi umani attraverso un microchip.

Eppure, il lavoro di Venturi non convince ed anzi lascia piuttosto perplessi. A ben vedere, il film risulta purtroppo mediocre sotto tutti i profili dinanzi esposti. L’approccio della regia è quello televisivo, primi piani stretti e teste mozzate; fotografia piena di eccessi, a tratti sottoesposta, quasi buia con la tendenza a virare dal giallo accesso ai toni scuri, in altri casi sovraesposta, fino a far dissolvere i dettagli; una presa diretta a tratti incomprensibile; effetti visivi improbabili; un cast forzato che anche a causa di uno script spesso confusionario e gratuitamente ’scientifico’ risulta del tutto inadeguato; un finale, vale la pena sottolinearlo, pessimo.

Il lavoro di Venturi è dunque un esperimento interessante ma non coinvolgente: un mix di ufologia e complotti governativi che purtroppo si perde fra numerosi elementi. La pur apprezzabile idea di partenza non riesce nel suo sviluppo, ed il basso budget a disposizione lascia al film di Venturi uno sgradevole effetto amatoriale che a volte rasenta il ridicolo.

Forse, viene da pensare, se il soggetto fosse finito sul tavolo di una produzione hollywoodiana poteva uscirne un lavoro di genere, magari un nuovo episodio di Chris Carter.

Per chiudere, se è vero che un buon budget sia il primo ingrediente per la riuscita di una pellicola, è altrettanto vero che quello che davvero conta è pur sempre il sapiente dosaggio delle componenti strutturali del linguaggio cinematografico. In questo senso, ritengo più apprezzabile una buona produzione che gestisca il testo con equilibrio e semplicità e dia risalto alle componenti essenziali del cinema rispetto ad un lavoro che, pur con una modesta disponibilità economica, conduca ad una messa in scena spocchiosa e inutilmente barocca.

lunedì 10 ottobre 2011

Architetture della Visione (2)

Chungking Express (1994)


Fallen Angels (1995)


In the Mood for Love (2000)


2046 (2004)


My Blueberry Nights (2007)


Il tempo è il vero protagonista del cinema. Il privilegio del regista consiste nel controllare il tempo, cosa che nella vita reale risulta impossibile. Nella vita reale il tempo non può essere fermato o accelerato, mentre nel cinema il regista può governare il tempo, trasformare un secondo in un'ora e ridurre un periodo di dieci anni a qualche secondo, ed in questo modo proiettare lo spettatore dove si vuole (Wong Kar-wai)

mercoledì 21 settembre 2011

The Tree of Life



Esistono due vie per affrontare la vita, la via della Natura e la via della Grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire”.

Terrence Malick apre il suo ultimo film con questo incipit, efficace premessa e sintesi della dicotomia di fronte a cui l’esistenza ci pone. Dicotomia le cui facce sono rappresentante dalla contrapposizione di macro e micro che da vita al film: da un parte il cosmo, dominato dalle leggi di una natura dirompente ed inesorabile, dall’altra la vicenda privata di una famiglia che ha scelto, invece, la via della “Grazia”. Poco importa se questa Grazia, come emergerà presto, è sinonimo del conservatorismo un po’ bigotto della provincia americana anni ’50, che porterà il maggiore dei tre figli a vivere un conflitto interiore, tra la dolcezza di una madre remissiva e l’educazione austera, di tipo militare, impartitagli dal padre.

L’ultimo lavoro di Terrence Malick si rapporta alla produzione cinematografica americana con alcune interessanti varianti. Se è vero che il cinema classico americano, quello hollywoodiano, è caratterizzato da uno stile i cui principi sono rimasti sostanzialmente costanti attraverso decenni, Malick altera la narrazione con elementi extradiegetici che pongono lo spettatore in una condizione instabile, al limite tra rappresentazione del reale e degenerazione visionaria.

Ciò a cui il cinema americano ha sempre mirato è il dar vita a quello che possiamo definire lo “spettatore inconsapevole” che scivola docilmente nel mondo della finzione, si proietta nella vicenda narrata, si identifica coi protagonisti del racconto, dimenticandosi di essere al cinema e di assistere a uno spettacolo finendo col confondere la realtà rappresentata sullo schermo per la realtà tout court. Ed invece, il film di Malick sembra seguire un filo non lineare e rassicurante, dove alla vicenda familiare si aggiungono immagini che provengono da un altro tempo (la scena preistorica), da un altro spazio (la galassia che raccoglie il pianeta terra), da altri punti di vista (la porta che Sean Penn attraversa nel deserto). In altre parole, il lavoro di scrittura di Malick non vuole per nulla mascherare l’oggetto principale della sua rappresentazione, ma al contrario, con l’uso di un montaggio connotativo e simbolico, intende rafforzare i valori di quella rappresentazione, pur destabilizzando lo spettatore con abili manovre di montaggio ed effetti visivi.

Per altri versi, invece, la sceneggiatura di Malick si pone in linea con la scrittura hollywoodiana che sviluppa l’argomento narrato in modo tripartito. Ed infatti, posta una premessa (il sistema di vita di una famiglia medio borghese), si transita attraverso un momento critico (dove viene messo in discussione l’equilibrio dei rapporti familiari a seguito della morte di uno dei figli), fino a giungere ad un epilogo che ha rielaborato la premessa proprio con l’apporto di quell’antitesi (il figlio maggiore raggiunge la maturità nella convinzione di aver ricevuto un’educazione incompleta che non gli ha permesso di vivere fino in fondo la perdita del fratello più piccolo).

Tale epilogo avviene nell’ennesima cornice della natura, in uno scenario suggestivo al pari delle location che popolano l’intero film: una spiaggia quieta e affollata, alla quale il figlio maggiore (Sean Penn) giunge attraversando la simbolica porta nel deserto, spartiacque fra la quotidianità del presente e un passato remoto e inafferrabile. È in questo luogo di confine, al di fuori del tempo e dello spazio e commisto con essi, in cui i fantasmi del passato sembrano perdere la loro natura opprimente per acquisire un’aura di serena accettazione, che il figlio può ricongiungersi con sua madre e suo fratello e riconciliarsi con il padre, proprio come la Grazia sembra finalmente congiungersi con la Natura e risolvere la dicotomia portante del film.

È difficile giudicare un film che, come questo, offre una molteplicità di piani di lettura, visivi e morali. Se si considera The Tree of Life sul versante puramente estetico, si tratta di un’opera di qualità elevatissima: la tecnica e l’impatto della fotografia (affidata a Emmanuel Lubezki), l’efficacia del montaggio (affidato tra gli altri a Billy Weber) costituiscono senza dubbio il punto di forza di un film che, se limitato alle pura cifra tematica, sarebbe risultato sterile e incompleto. Infatti l’impressione di fondo, nonostante la profondità d’intenti e la suggestione delle immagini, è che il regista abbia un po’ troppo tirato la corda e abbia diluito una trama già di per sé labile oltre una ragionevole misura, impiegandola come puro pretesto per dar sfogo (e di questo gliene siamo grati) all’amore per la fotografia di cui aveva già dato prova con i suoi precedenti lavori: I giorni del cielo (un film del 1978 con la fotografia magistrale di Néstor Almendros); La sottile linea rossa (film del 1998 con la fotografia di John Toll); Il nuovo mondo (un film del 2005 ancora con la fotografia di Emmanuel Lubezki). E.P. S.B.

lunedì 12 settembre 2011

L'angelo sterminatore



Nel 1962 Luis Buñuel colpisce il sistema costituito, borghese e reazionario, con una beffarda e cinica opera surrealista. Forse la più surrealista della sua produzione.

Dopo una serata a teatro, un gruppo di personaggi appartenenti all’alta borghesia messicana si riunisce in un’elegante villa, consumando la propria cena fra chiacchiere senza importanza, pettegolezzi e piccoli flirt. Vengono così rappresentate le bassezze e le perversioni degli invitati ma anche le sovrastrutture grottesche delle convenzioni sociali dell’epoca.

Arrivato il mattino, quando ormai gli invitati si decidono di andarsene, si rendono conto che non riescono ad attraversare la porta, nonostante sia aperta. Il nervosismo e la tensione aumentano. Uno degli ospiti muore e il cadavere viene nascosto in un armadio. Il tempo trascorre e anche dall'esterno della casa i tentativi per entrare falliscono uno dopo l'altro. Gli ospiti, sorpresi dai bisogni primari tra cui la fame e la sete, iniziano a sentirsi addosso il peso dei giorni e della frustrazione: iniziano così i litigi e le accuse.

Le convenzioni finiscono per cedere il posto ad un crudele gioco al massacro, che in qualche modo allude all’incomprensibilità e al caos che regnano nella civiltà moderna e che contraddistinguono la condizione umana.

Solo all’ultimo sarà trovato il modo per uscire. Gli ospiti si rimetteranno nella posizione in cui si trovavano all'inizio della serata, ma anche a questo punto il delirio non è terminato.

Presentato al Festival di Cannes nel 1962, il film di Luis Buñuel, tratto dal testo teatrale “Los naufragos de la calle Providencia” di José Bergamin, si propose come un dissacrante manifesto antiborghese, non senza suscitare polemiche e disapprovazioni.

Il registra spagnolo, all’epoca censurato in patria dal regime franchista, attinge a piene mani alle origini surrealiste del proprio cinema per dar vita ad un’opera ricca di invenzioni fantastiche: una graffiante commedia grottesca che precipita ben presto in una dimensione completamente irreale ed onirica, dominata dalle regole dell’assurdo e del non-sense.

I vizi e le meschinità della classe borghese rappresentati da Buñuel passano attraverso l’alterazione della sintassi narrativa propria de surrealismo. Non solo. Lo stravolgimento degli eventi viene pilotato dai percorsi reconditi dell’inconscio. Per questo il surrealismo è stato definito come automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.

In altre parole l’operazione surrealista di Buñuel intende esprimere il dissidio fra società borghese e rivoluzione. E ciò a condizione di intendere la società borghese nell’insieme delle sue regole comportamentali, sessuali, ideologiche ed economiche; e a condizione d’intendere per rivoluzione non soltanto l’azione politica, ma l’insieme di tutte quelle rotture e violazioni – la cui complessa manifestazione giace sui diversi e molteplici piani dell’esistenza individuale e sociale – che investono un ordine costituito e lo mettono a soqquadro.

Infine, l’uso della ripetizione. Buñuel dichiara di essere il primo regista che utilizza questo espediente narrativo poiché una scena ripetuta crea un senso di ossessione, di angoscia e di mistero. Fin dalle prime sequenze Buñuel inserisce una serie di ripetizioni, che danno alla struttura stessa del film un andamento circolare, così che L'Angelo sterminatore sembra non avere un finale vero e proprio e si conclude con una sospensione. Lo spettatore non ha la sensazione che qualcosa si sia compiuto, anzi, è proprio nella sequenza finale che tutto ritorna in modo esponenziale e amplificato.

Il tempo è dissolto. Rimangono solo pulsioni.

Così nella lettura di Gilles Deleuze, la poetica di Buñuel è permeata da un surrealismo nero che mette in evidenza i mondi pulsionali e originari: gli istinti, le pulsioni, i desideri rimossi tendono verso il loro appagamento, tuttavia, secondo Buñuel, l'energia sublimata molto spesso si orienta verso la pulsione di morte e la distruzione piuttosto che verso la creatività e l'arte.

giovedì 23 giugno 2011

DILLINGER È MORTO

di Marco Ferreri (1969)



L’Uomo Moderno ha bisogno di indossare una maschera per vivere nell’ambiente circostante.
La surreale scena con cui l’opera di Ferreri ha inizio, ancor prima dei titoli dei testa, contiene in nuce ciò a cui assisteremo per tutta la durata, lenta e claustrofobica, del film: la necessità di un filtro fra l’uomo e il mondo, e come la mancanza di tale filtro renda l’uomo succube degli oggetti che, nella loro inconsueta abbondanza, tendono a sostituirsi all’essere umano e a sovrastare inesorabilmente la sua esistenza.
Durata lenta, eppure avvincente perché ipnotica: come il protagonista s’identifica, diventa parte e succube dell’ambiente saturo di oggetti che lo circonda, così anche lo spettatore viene gradualmente risucchiato (e in questo è evidente l’abilità del regista) dalla location, dalle ambientazioni chiuse e concluse che fanno pensare a una pièce teatrale, tanto la durata degli interni e la mimica dell’unico protagonista costituiscono, e reggono felicemente, la quasi totalità della non-trama.
Ambientazioni chiuse e prive di finestre, di vie d’uscita, sature di oggetti e di colori: metafore fisiche della condizione dell’uomo (post)moderno, de-privato di orizzonti e sottoposto all’incessante suggestione di merci con cui tende, per inesorabile osmosi, a identificarsi. È in tale contesto che il protagonista passa una lunga e solitaria nottata, rientrato dal lavoro: contesto che, ancorché stemperare e rilassare lo stress di un’intera giornata, esaspera la nevrosi dell’individuo. Un individuo di brillante posizione sociale, economica e persino familiare, come denota la presenza di una moglie bellissima a cui è legato da un rapporto distratto ma (apparentemente) affettuoso. Ma, nel momento in cui egli rimane da solo nella sua villetta, gli oggetti e l’inevitabile reificazione con essi hanno il sopravvento: così il tentativo di cucinare qualcosa diventa un pretesto per disseppellire dalle stipe di casa (e dalla propria coscienza) inquantificabili utensili senza identità e precisa funzione se non la loro mera cifra numerica: tra questi, per puro caso, una pistola incartata in un vecchio giornale che riporta la morte del famoso gangster Dillinger. Quasi sovrastato dal rinvenimento tangibile, dal contatto con la pistola, l’Individuo inizia a studiarla, smontarla, oliarla, con la cura e la morbosità proprie dell’interazione con un altro essere umano.
Ma la lunga notte dell’Individuo è costellata di simulacri, pulsioni, desideri brevi e fallaci: soddisfatta la sua improvvisa inclinazione culinaria, è la fascinazione per antonomasia dell’Uomo Moderno che attrae tutta la sua attenzione: lo schermo, sia esso ipnotico sottofondo alle sue attività culinarie e armaiole o, dopo la cena, sotto forma delle diapositive delle vacanze che egli guarderà per ore e con sempre maggior partecipazione, mimando i gesti e le voci, al parossismo di una totale identificazione con esse. Schermo come emblema dei media, presenti anch’essi nell’infatuazione che la giovane cameriera nutre per la star del momento e nei poster appesi in camera che ella venera quali simulacro di essa.
Svanito l’ennesimo simulacro, all’Individuo senza requie (poiché il bombardamento di input e suggestioni non lascia spazio a un riposo mentale, salvo indossare la maschera-filtro da lui stesso progettata) non resta che sfogare sulla propria quotidianità il surplus di informazioni subìte. È così che Egli tenta un amplesso facile e fugace con la cameriera, insoddisfacente proprio perché facile e fugace; si aggira, e qui la claustrofobia delle locazioni sembra raggiungere il parossismo e lo spettatore compiere la definitiva immedesimazione con le percezioni del protagonista, tra il salotto e la stanza da letto in cui la bellissima moglie dorme distante; compie infine, con la pistola emblematicamente dipinta a colori sgargianti (rossa a pois bianchi) l’insensato delitto, senza reazione per alcuno, attori o spettatori, poiché entrambi ormai alienati dall’anestetizzante conforto della debordante materia circostante.
Dopo il delitto, l’Individuo si dirige, in un’alba di plastica, verso un molo ampio e luminoso. Il fatto che a quel molo si giunga attraverso la grotta di Byron non provoca alcun soprassalto di coscienza né all’Individuo, novello reo di un crimine, né sdegno da parte di uno spettatore esterno e consapevole.
Anche le poche parole che l’Individuo rivolge al mozzo annegano nel mare (è il caso di dirlo) del non-sense generale. E così l’individuo parte, verso un sole apparentemente caldo e vivo, in realtà anch’esso mero oggetto alla stregua di tutti quelli che, in assenza di maschere, inglobano e possiedono l’Uomo Moderno.
Recitazione e mimica ineffabile del protagonista Michel Piccoli, imprescindibile della felice riuscita del film. Ottimi i comprimari, uno o due in tutto (tra cui una giovane Annie Girardot). Straordinario film di Ferreri, precursore dei tempi, un occhio già analitico verso ciò che stava appena accadendo: quasi uno sguardo dal futuro, incomprensibile per i contemporanei (tanto l’accaduto in fieri quanto a maggior ragione l’occhio critico su di esso): il tutto con la sapiente nonchalance di chi non stia facendo nulla di speciale, anzi proprio nulla in generale.
Descrivere il proprio tempo in maniera efficace e non retorica, è sintomo di talento. Descriverlo fingendo di oziare, di bighellonare con la macchina da presa alla stregua di un filmino domestico, riuscendo persino a far dimenticare che si stia descrivendo qualcosa, non è da tutti. È da pochi eletti che, se anche non progettano maschere anti-gas a far da filtro con la Realtà (o forse sì?), si chiamano Geni (Eva Giulia).

giovedì 26 maggio 2011

Il Cigno Nero



Un film di Darren Aronofsky, con Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Barbara Hershey, Winona Ryder, USA 2010, 20th Century Fox.

Il male è dentro di noi, il male siamo noi. Il cigno nero esplora una volta ancora il tema del doppio, del Dr Jekylll che acquattato nel nostro animo aspetta di potersi manifestare e prendersi quello che gli spetta. Quello che ci spetta, perché Jekyll non è altro rispetto a Hyde, è la stessa persona. Allo stesso modo il cigno nero non è altro rispetto al fratello bianco, entrambi sono Nina. E Nina vuole disperatamente quella parte, la vuole per sé e la vuole per sua madre (figura forse un po’ troppo scontata di madre che rinuncia alla propria carriera riversando le proprie aspettative sulla figlia e sottoponendola ad una pressione psicologica quasi insostenibile). Non è il cigno bianco che è in lei a farle ottenere la parte però, ma la parte buia di sé, la parte aggressiva e anche un po’ sconcia. Il cigno bianco è preciso ma non ha animo, è un vestito ben stirato che mette meno in risalto le forme. Suo fratello nero fa paura, ma non si ferma davanti a nulla e ottiene quello che vuole. Lo ottiene per sé e per suo fratello bianco perché lo sa che lo vuole anche lui ma non ha la forza di andarselo a prendere.
Il buio dentro di noi è come un pozzo intorno a cui camminiamo tutta la vita, guardandoci dentro per vedere cosa c’è, per vedere che non esca. Qualcuno a volte entra e ne esce più forte, qualcun altro non ne esce più, qualcuno ci cade dentro perché non si è mai accorto che era lì.
Ma quanto è più bello il cigno nero quando balla, nella sua infinita certezza dell’obiettivo, nel suo terribile sguardo? Quanto più sinuoso è il suo danzare, il suo spiegare le ali nel prendersi finalmente tutto, nel rubarlo con l’inganno al suo doppio bianco che non ha saputo, che non era sicuro, che ancora dubitava di sé? Se solo lui l’avesse guardato, se non l’avesse ignorato, se solo avesse nuotato insieme a lui, non sarebbe stato costretto a tradirlo. (Giovanna Pesci)

giovedì 5 maggio 2011

TEOREMA

Bisogna cercare di inventare nuove tecniche che siano irriconoscibili, che non assomiglino a nessuna operazione precedente, per evitare la puerilità, il ridicolo. Costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti, per cui non esistono precedenti misure di giudizio, che devono essere nuove come la tecnica. Nessuno deve capire che l’autore non vale niente, che è un essere anormale, inferiore, che come un verme si contorce e striscia per sopravvivere. Nessuno deve mai coglierlo in fallo di ingenuità. Tutto deve presentarsi come perfetto, basato su regole sconosciute e quindi non giudicabili. Come un matto, si, come un matto, vetro su vetro, perché non sono capace di correggere niente e nessuno se ne deve accorgere. Un segno dipinto su un vetro che regge, senza sporcarlo, un segno dipinto prima su un altro vetro. Ma tutti dovranno credere che non si tratti del ripiego di un incapace, di un impotente. Niente affatto. Ma che si tratti invece di una decisione sicura, imperterrita, alta e quasi prepotente. Nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso, per caso e tremando; e che appena un segno si presenta riuscito bene per miracolo, bisogna subito proteggerlo, custodirlo, come in una teca. Ma nessuno, nessuno deve accorgersene. L’autore è un povero tremante idiota, una mezza calzetta, vive nel caso e nel rischio, disonorato come un bambino, ha ridotto la sua vita alla malinconia ridicola e vive degradato dall’impressione di qualcosa di perduto per sempre.


Pier Paolo Pasolini (Teorema, 1968)

venerdì 29 aprile 2011

BAD GUY (NABBEUN NAMJA)



Il film di Kim Ki-duk del 2001 narra di una trasformazione e delle relazioni che questo cambiamento, seppur forzoso, si riverberano dall’interno all’esterno.

La protagonista del film Sun-hwa (interpretata dall’attrice coreana Seo Won), una giovane studentessa innamorata del suo ragazzo e della vita, si trasforma (meglio dire: viene trasformata) in una prostituta, così degradando la sua esistenza nella più bassa condizione sociale.

La donna, passando per diverse identità (rappresentate da molteplici segni esteriori: la pettinatura, l’abbigliamento, l’espressione del volto), si ritrova a vivere una nuova esistenza, a mercificare il suo corpo e ad essere osservata come un topo in una gabbia. Finché dopo continue violenze, sfinita, si arrende alla possibilità di un amore con il suo oppressore, che fin dall’inizio della storia è profondamente innamorato di lei.

La trasformazione ci riporta al famoso e intenso racconto di Frank Kafka “La metamorfosi”, forse uno dei massimi contributi alla letteratura contemporanea, dove Gregor Samsa si ritrova a essere da commesso viaggiatore a scarafaggio.

Il racconto kafkiano, come è noto, conduce il lettore all’interno di una nuova prospettiva esistenziale, mostrando i reconditi psicologici non solo del protagonista ma anche dei personaggi che lo circondano.

Kafka racconta non di una metamorfosi, ma di una serie, ed innanzitutto della trasformazione che vivono i genitori del protagonista. La metamorfosi non tratta solo di Gregor Samsa, getta una luce importante sui rapporti famigliari, tentando di chiarire dall’esterno i tumulti interiori che vive il protagonista del racconto.

Così tornando al film di Kim Ki-duk, lo spettatore sa che Sun-hwa (come il Gregor di Kafka) ha pensieri e sentimenti, ma lei non possiede più la lingua (figurativamente), e non può comunicare con l'esterno. Nonostante la storia sia rappresentata dal punto di vista dell’oppressore della ragazza, lo spettatore è l’unico a sapere che alla violenza della donna corrisponde una violenza altrettanto cruenta che vive la società che la circonda.

Il linguaggio utilizzato dal regista è asciutto, come in tutto il suo cinema, ma intervallato da momenti di "sensibilizzazione" dello spettatore, attuata mediante diversi stratagemmi: colonna musicale, scelte di montaggio, primi piani.

In effetti, tutto il film sembra focalizzarsi sulla relazione esistenziale tra l’avere un corpo e l’avere un’anima. Ma pure se il corpo è cambiato, viene da chiedersi se la giovane donna, come Gregor, ha lasciato definitivamente la comunità umana, oppure, avvolgendo lo spettatore/ lettore in una spirale che non ha origine e fine, lo ha travolto con se, trasformando - deformando il suo approccio alle cose ed ai preconcetti del vivere quotidiano.

lunedì 14 marzo 2011

I N C E P T I O N

« Qual è il parassita più resistente? Un'idea. Una singola idea della mente umana può costruire città. Un'idea può trasformare il mondo e riscrivere tutte le regole. Ed è per questo che devo rubarla »

Il sogno come contesto psicanalitico. Luogo della mente in cui è possibile deformare eventi o lasciarli compressi, come soluzione di un problema, ma soluzione che appare semplicistica e più strana che originale. Il sogno sa offrire una qualità narrativa, con gli stessi processi e strutture, e altre similitudini. L’Io del sognatore partecipa a una storia come se la storia fosse stata scritta da un altro; l’Io nel sogno non sperimenta se stesso come se avesse un controllo sul proprio destino e non ha un sentimento di comprensione e di ordine nel suo mondo.

Estrazione / innesto. La ripartizione si compone di tre livelli. Dal punto di vista della storia portante, del sogno narrato e della sceneggiatura. In bilico costante tra il mondo reale e quello onirico, lo spettatore assiste/penetra nei meandri del subconscio e l’unica possibilità che gli è data per resistere al travolgimento/degradazione degli eventi è una piccola trottola di metallo, un "totem" che permette di distinguere i diversi livelli oggetto della rappresentazione. Ma in realtà è un’ulteriore finzione, apprestata dalla messa in scena cinematografica.

Cobb il protagonista vive un sogno per tutta la durata del film (da quando si risveglia in riva al mare fino a quando ritornerà a casa per vedere finalmente i propri figli) per liberarsi dalla idea morbosa della sua ex moglie, Mal. Cobb l’innestatore organizza un sogno strutturato in tre livelli per attribuire a Robert Fischer (figlio di un industriale miliardario), un’idea che altrimenti non avrebbe avuto. Il film di Christopher Nolan insinua nello spettatore il dubbio perenne tra la realtà del sogno e la dimensione onirica della realtà.

Studiando ed approfondendo la dinamica del sogno nel sogno, si passa dal sogno di Robert Fischer (ambientato per le strade di una città mentre imperversa un nubifragio), al sogno di Arthur (ambientato in un albergo), fino al sogno di Eames (ambientato in una località di montagna). Centrale il ruolo di Arianna (interpretato da Ellen Page), che come nel mito aiutò Teseo ad uscire dal labirinto nel quale era imprigionato, assembla la struttura del contesto onirico per ripercorrere le dimensioni del reale.

La realizzazione della sceneggiatura di Inception ha avuto inizio dieci anni prima della sua uscita cinematografica. L'idea di lavorare ad un film che riguardasse i sogni ha cominciato ad interessare Nolan nel periodo in cui lavorò a Memento (2000). Il regista accantonò il progetto quando la sceneggiatura era composta da circa ottanta pagine. Successivamente si dedicò ad Insomnia, film del 2002 che racconta la storia di un detective tormentato dall'insonnia la cui mente è distorta dalla deleteria mancanza di sonno. Il progetto di realizzare Inception venne di nuovo ripescato grazie ai consigli della moglie e co-produttrice Emma Thomas, ma di nuovo messo da parte dato che alcuni anni prima era uscito nelle sale cinematografiche Matrix (1999), la cui storia somigliava troppo alle tematiche del suo script. Passato sufficiente tempo, il regista cominciò a lavorare seriamente all'idea. Nolan, affascinato dal mondo onirico, studiò un modo per applicare il concetto di condivisione di un sogno e dal modo in cui l'essere umano sia capace di produrre emozioni molto forti durante tale stato. Inception si basa infatti sull'idea che nei sogni ogni percezione appare reale e che nel subconscio si possono nascondere e di conseguenza scoprire i segreti più nascosti.

Nel finale la stanza del padre di Robert Fischer (nera) ricorda fortemente la stanza del finale di 2001 – Odissea nello spazio (bianca) quando il capitano David Bowmann si ritrova invecchiato al termine dei diversi stadi della propria vita di fronte al monolito nero ed al feto dell’umanità.





« I sogni sembrano reali finché ci siamo dentro, non ti pare? Solo quando ci svegliamo ci rendiamo conto che c’era qualcosa di strano »

lunedì 21 febbraio 2011

Lo spazio e il tempo della mente, ovvero la memoria

Eppure io credo che la realtà sia soggettiva e come tale essa sia relativa, non tanto nella sua percezione, ma proprio nella sua stessa consistenza. L'espressione artistica in quanto tale non può che limitarsi a rappresentare il riflesso di una dimensione che è costantemente in progressione. “La vita è uno stato della mente” così come viene recitato alla fine di Oltre il giardino - Being There (film del 1979 diretto da Hal Ashby).
Per questo vorrei parlare della memoria, e del modo in cui il cinema può rappresentare un possibile percorso visivo sulla/nella mente. In fondo è proprio nell'esplorazione della mente che possiamo ricostruire o ri-costituire il nostro rapporto con le cose.
Memento (film del 2000 diretto da Christopher Nolan); Spider (film del 2002 diretto da David Cronenberg); Stati di allucinazione - Altered States (film del 1980 diretto da Ken Russell); Inland Empire - L'impero della mente (film del 2006 diretto da David Lynch; Shining (film del 1980 diretto da Stanley Kubrick).
Il raffronto è nei contenuti, ma interessante è anche l'approccio stilistico dei vari autori. nella prima pellicola il movimento è esterno al personaggio e a ritroso. partendo dalla fine degli eventi lo spettatore ritrova alla fine del film la storia umana del personaggio. Nel secondo film il punto di vista è interno ed in avanti. Il personaggio esce da se stesso e ripercorre assieme allo spettatore le fasi salienti della sua esistenza. nella terza pellicola il punto di vista è esterno ed a scatole cinesi. Gli eventi vengono rappresentati oggettivamente ma al variare del punto di vista dei diversi personaggi all'interno della storia varia anche la consistenza dell'evento in se (sogno, ricordo, rimorso, paura, e ancora realtà, finzione, illusione). Il personaggio di Ken Russell (uno scienziato alle prese con un esperimento scientifico) procede con un andamento oggettivo e a ritroso verso il tempo, il suo obiettivo è quello di ritrovare la propria origine biologica, regredire alla materia primordiale fino all'epoca della formazione del Big bang. Interessante la trasformazione fisica del personaggio. L'ultimo film neanche a dirlo è il più significativo, la mente è un luogo. un albergo sperduto (Overlook hotel). all'interno l'uomo cerca di ri-percorrere se stesso, ma si trova perso in un labirinto. In questo caso di terrore e morte. Solo alla fine lo spettatore vedendo una foto del protagonista appesa al muro concepirà la sua esistenza come un movimento che non ha inizio e non ha fine (emblematica la sequenza finale realizzata con una steadicam, tecnicamente carrello in avanti, quindi riproducendo quello che potrebbe essere il vero punto di vista dello spettatore).
La memoria non è stabile, come anche i possibili modi di rappresentarla non lo sono. Il suo oggetto non è costante. Potremmo dire che varia al variare del modo in cui è rappresentata. Ma non è semplice narrare qualcosa se sfugge dalle mani.

venerdì 4 febbraio 2011

Matteo Garrone vs Paolo Sorrentino

Dire quale dei due registi sia preferibile nell’attuale panorama del cinema italiano non è semplice. In fondo hanno entrambi caratteristiche stilistiche e spunti tematici davvero notevoli. Si direbbe che le peculiarità dei due, e per altro verso le rispettive differenze, siano in grado di rappresentare nella sua complessità l’idea del cinema d’autore italiano, capace di catturare l’immagine della società contemporanea e la sintesi del suo progresso storico.

Classe 1968 Matteo Garrone, classe 1970 Paolo Sorrentino, romano il primo napoletano il secondo, hanno entrambi il pregio di perseverare nelle proprie convinzioni iniziali sul cinema, nonostante inevitabili assestamenti delle loro applicazioni stilistiche.

Tralasciando i rispettivi esordi, mette conto rilevare la cifra dei contenuti espressi nei lungometraggi dei due registi. E così il primo ha dato vita a pellicole interessanti come: Terra di mezzo (1996); Ospiti (1998); Estate romana (2000); L'imbalsamatore (2002); Primo amore (2003) e da ultimo Gomorra (2008). Il secondo ha realizzato: L'uomo in più (2001); Le conseguenze dell'amore (2004); L'amico di famiglia (2006) e infine Il divo (2008).

Se si potessero sintetizzare le assi portanti del cinema italiano si potrebbe affermare, seppure senza pretesa di categoricità, che la summa si è avuta per un verso con il cinema di Michelangelo Antonioni, per quello che attiene ad un linguaggio basato sulla essenzialità dei fenomeni narrati, e per altro verso con il cinema di Federico Fellini, sul versante della trasfigurazione immaginifica degli eventi. Fotografia l’uno (ad es. Blow Up) allegoria l’altro (Otto e mezzo). Si potrebbe dire in un caso analisi dei processi e nell’altro sintesi della storia. Questo avveniva attorno agli anni 60’ – 70’, ma da li a seguire, purtroppo, la sperimentazione italiana sembra essersi arrestata. Almeno fino ad oggi, con gli autori in commento.

Partiamo dal primo. Predilige la rappresentazione di storie semplici, o comunque di contesti sociali degradati, al limite dell’emigrazione e della illegalità, in buona sostanza l'interesse per il realismo. Il metodo di lavorazione di Garrone, volto a investigare tanto l'incertezza esistenziale dei personaggi tanto il più ampio scenario sociale che li ricomprende, sembra essere quello dogmatico (da dogma 95 promosso nei primi anni novanta da Lars Von Trier e Thomas Vinterberg), legato cioè ad una troupe ridotta al minimo, a riprese in ambienti reali, ad un uso della cinepresa a spalla, del sonoro in presa diretta e di attori non professionisti. Ne deriva un cinema aperto all'improvvisazione, che rifiuta la spettacolarità fine a se stessa per mettersi al servizio della realtà. In altre parole la poetica del regista si trasfonde in uno stile asciutto quasi documentaristico, laddove più che la narrazione, il centro focale consiste nel fotografare nella sua intima essenza l'ambientazione autentica del reale. I successivi lavori mettono in evidenza una predilezione per storie più complesse che mettono in risalto la psicologia dei personaggi ma pospongono l’impianto sociale. All'attenzione per lo scorrere della realtà si unisce una rigorosa ricerca formale, influenzata forse da altri percorsi artistici del regista. In questo modo un fatto di cronaca perde la sua attinenza prettamente reale per divenire pretesto per un indagine più aperta nelle viscere della mente umana. Si ricongiungono così gli elementi stilistici tipici del noir in una storia in bilico tra il realismo e astrazione pittorica. Il film esaspera la storia narrata tra la registrazione neutra della realtà e un'elaborazione visiva che tende all'astrattismo. Anche gli accorgimenti tecnici, come l’uso del piano-sequenza, mettono in evidenza l’utilizzo del mezzo cinematografico per dotare di tensione semantica le vicende narrate. Con l’ultimo film (Gomorra del 2008) Garrone raggiunge certamente la sua maturità artistica. Supportato dalla struttura narrativa del testo di Roberto Saviano, il regista riproduce governandoli i propri assiomi stilistici. A riprese mobili di segno documentaristico si contrappongono piani ragionati ed una maggiore cura nella composizione fotografica. Prevale il sonoro in presa diretta con predilezione per un commento musicale intradiegetico, e lo stesso montaggio si mette da parte per mostrare nel suo sviluppo naturalistico l’ambientazione messa in scena. Ottimo direi o quasi eccellente il risultato finale che lascia allo spettatore non una valutazione immediata e talvolta superficiale ma il più profondo giudizio personale su fatti non filtrati dal giudizio del regista.

Veniamo a Paolo Sorrentino, regista e sceneggiatore di abile mestiere. La sua nota stilistica di fondo è un sapiente e pervicace utilizzo del montaggio semantico, della fotografia estetica e della voce narrante dei personaggi (c.d. Voce off o fuori campo). I personaggi raccontati e posti al centro della sua attenzione sono uomini che credono di avere il controllo delle situazioni che vivono, del loro destino, ma che in fondo sono assoggettati agli eventi messi in atto dalla storia. Antonio "Tony" Pisapia, Titta Di Girolamo (Toni Servillo), Geremia de' Geremei (Giacomo Rizzo) e infine Giulio Andreotti (di nuovo Toni Servillo) sono i protagonisti che detengono allo stesso tempo il successo ed il fallimento delle loro vicende personali, ed insieme il limite del contesto sociale in cui si muovono. Emblematico lo sviluppo narrativo di Titta Di Girolamo ne “Le conseguenze dell’amore” ed il contrapporsi tra il suo cinismo iniziale ed il lento sgretolarsi della sua integrità di fronte all'amore per la giovane commessa del bar dell’albergo in cui vive. Ma anche la vicenda di Geremia ne “L’amico di famiglia” che crede di raddoppiare in un solo affare tutti i risparmi accumulati nella sua carriera di usuraio e che invece si infrange irrimediabilmente di fronte all’abile raggiro organizzato dalla bella e affascinante Rosalba e dall’ambiguo Cowboy. Viene portata sulla scena la solitudine dei personaggi, l'ambiguità dei loro desideri e il congelamento delle emozioni. Si tratta di uomini che vivono intrappolati ognuno e a suo modo nella propria realtà ed è per questo che le scelte stilistiche sono gestite per ottenere un risultato visivo idoneo a sintetizzare quegli stati d’animo.

Sorrentino è attualmente impegnato nelle riprese del suo primo film in lingua inglese, This Must Be the Place, che vedrà Sean Penn nel ruolo del protagonista. Garrone, da quello che si apprende sulla stampa, è intenzionato a realizzare, con l’ausilio di Fabrizio Corona, un film su “Vallettopoli”, ovvero “su quell’universo cialtrone che ondeggia tra pagine di rotocalchi e faldoni di inchieste giudiziarie”.

Una notazione finale merita la particolare cura di entrambi i registi per la fotografia, ed affidata per Garrone a Marco Onorato (Oscar Europeo per Gomorra) e per Sorrentino a Luca Bigazzi (Nastro d’argento per Le conseguenze dell'amore).



sabato 29 gennaio 2011

LA PASSIONE

di Carlo Mazzacurati (2010)


La realtà è quello che conta. Il cinema, per quanto si affatichi a catturare l’intima essenza delle cose, rimane sempre un surrogato della realtà, una sua riproduzione utile per la gestione delle emozioni umane. Ma i sentimenti che compongono l’esistenza risiedono nella realtà e solo in essa.
La scena è corale ma al centro c'e un uomo, in particolare un regista. Un uomo che, dopo una brillante carriera, ha esaurito le sue idee.
Pur dovendo affrontare gli ostacoli della vita quotidiana e le strategie del cinema commerciale, con le sue finzioni e la sua bramosia per il profitto, il regista si trova, per un ricatto dell’amministrazione comunale di un piccolo paese toscano, a dover allestire la rappresentazione della passione di Cristo.
L’involontaria presenza nella piccola comunità metterà l’uomo e insieme il registra di fronte alla realtà degli esseri umani, ai loro veri sentimenti, alle loro virtù, ai loro difetti.
Quando arriva il momento della rappresentazione, dopo una serie di tragicomici imprevisti e difficoltà, un ladro interpreterà il ruolo di Cristo. Un uomo grasso che non ha soldi, che è perseguitato dalla polizia e non ha scampo da una società che lo deride e lo disprezza.
Al termine della rappresentazione, quando Gesù Cristo è crocefisso sul golgota con a fianco due extracomunitari, il regista non avrà parole per commentare la messa in scena che egli stesso seppur inconsapevolmente ha allestito ed un violento temporale si abbatterà sulla terra, sui presenti, su tutti gli uomini.
Il regista ride e mentre piove a dirotto osserva la maddalena (interpretata da una ragazza polacca che ha scelto per amore di seguire il suo uomo nel piccolo paese toscano rinunciando alle sue aspirazioni, ma nella convinzione di fare quello per cui vale la pena vivere, la condivisione della vita con un'altra persona) piangere sotto l’acqua.
È una presa di coscienza quella del regista e della ragazza che involontariamente li unisce nonostante gli avvenimenti ed un destino diverso per entrambi. Ma il loro sguardo ora è proiettato verso il futuro.

Pace, silenzio e grata attenzione
porgete e preparate il vostro ingegno
a eccitare il cuore a devozione
in questo giorno prezioso e degno.
Vedendo recitare la passione
del nostro Cristo su quell’aspro regno
dove per condurre le nostre anime al porto
fu crocifisso, tormentato e infine morto.

mercoledì 12 gennaio 2011

Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto

film del 1970 di Elio Petri

Alle ore sedici di domenica ventiquattro agosto, io ho ucciso la signora Augusta Terzi con fredda determinazione. Ho una sola attenuante: la vittima si prendeva sistematicamente gioco di me. Ho lasciato indizi dappertutto, non per fuorviare le indagini, ma per provare, per provare... per provare la mia insospettabilità. Tuttavia, quando hai fatto condannare al tuo posto un innocente, la tua insospettabilità non è provata. (Il dirigente)