François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

mercoledì 21 settembre 2011

The Tree of Life



Esistono due vie per affrontare la vita, la via della Natura e la via della Grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire”.

Terrence Malick apre il suo ultimo film con questo incipit, efficace premessa e sintesi della dicotomia di fronte a cui l’esistenza ci pone. Dicotomia le cui facce sono rappresentante dalla contrapposizione di macro e micro che da vita al film: da un parte il cosmo, dominato dalle leggi di una natura dirompente ed inesorabile, dall’altra la vicenda privata di una famiglia che ha scelto, invece, la via della “Grazia”. Poco importa se questa Grazia, come emergerà presto, è sinonimo del conservatorismo un po’ bigotto della provincia americana anni ’50, che porterà il maggiore dei tre figli a vivere un conflitto interiore, tra la dolcezza di una madre remissiva e l’educazione austera, di tipo militare, impartitagli dal padre.

L’ultimo lavoro di Terrence Malick si rapporta alla produzione cinematografica americana con alcune interessanti varianti. Se è vero che il cinema classico americano, quello hollywoodiano, è caratterizzato da uno stile i cui principi sono rimasti sostanzialmente costanti attraverso decenni, Malick altera la narrazione con elementi extradiegetici che pongono lo spettatore in una condizione instabile, al limite tra rappresentazione del reale e degenerazione visionaria.

Ciò a cui il cinema americano ha sempre mirato è il dar vita a quello che possiamo definire lo “spettatore inconsapevole” che scivola docilmente nel mondo della finzione, si proietta nella vicenda narrata, si identifica coi protagonisti del racconto, dimenticandosi di essere al cinema e di assistere a uno spettacolo finendo col confondere la realtà rappresentata sullo schermo per la realtà tout court. Ed invece, il film di Malick sembra seguire un filo non lineare e rassicurante, dove alla vicenda familiare si aggiungono immagini che provengono da un altro tempo (la scena preistorica), da un altro spazio (la galassia che raccoglie il pianeta terra), da altri punti di vista (la porta che Sean Penn attraversa nel deserto). In altre parole, il lavoro di scrittura di Malick non vuole per nulla mascherare l’oggetto principale della sua rappresentazione, ma al contrario, con l’uso di un montaggio connotativo e simbolico, intende rafforzare i valori di quella rappresentazione, pur destabilizzando lo spettatore con abili manovre di montaggio ed effetti visivi.

Per altri versi, invece, la sceneggiatura di Malick si pone in linea con la scrittura hollywoodiana che sviluppa l’argomento narrato in modo tripartito. Ed infatti, posta una premessa (il sistema di vita di una famiglia medio borghese), si transita attraverso un momento critico (dove viene messo in discussione l’equilibrio dei rapporti familiari a seguito della morte di uno dei figli), fino a giungere ad un epilogo che ha rielaborato la premessa proprio con l’apporto di quell’antitesi (il figlio maggiore raggiunge la maturità nella convinzione di aver ricevuto un’educazione incompleta che non gli ha permesso di vivere fino in fondo la perdita del fratello più piccolo).

Tale epilogo avviene nell’ennesima cornice della natura, in uno scenario suggestivo al pari delle location che popolano l’intero film: una spiaggia quieta e affollata, alla quale il figlio maggiore (Sean Penn) giunge attraversando la simbolica porta nel deserto, spartiacque fra la quotidianità del presente e un passato remoto e inafferrabile. È in questo luogo di confine, al di fuori del tempo e dello spazio e commisto con essi, in cui i fantasmi del passato sembrano perdere la loro natura opprimente per acquisire un’aura di serena accettazione, che il figlio può ricongiungersi con sua madre e suo fratello e riconciliarsi con il padre, proprio come la Grazia sembra finalmente congiungersi con la Natura e risolvere la dicotomia portante del film.

È difficile giudicare un film che, come questo, offre una molteplicità di piani di lettura, visivi e morali. Se si considera The Tree of Life sul versante puramente estetico, si tratta di un’opera di qualità elevatissima: la tecnica e l’impatto della fotografia (affidata a Emmanuel Lubezki), l’efficacia del montaggio (affidato tra gli altri a Billy Weber) costituiscono senza dubbio il punto di forza di un film che, se limitato alle pura cifra tematica, sarebbe risultato sterile e incompleto. Infatti l’impressione di fondo, nonostante la profondità d’intenti e la suggestione delle immagini, è che il regista abbia un po’ troppo tirato la corda e abbia diluito una trama già di per sé labile oltre una ragionevole misura, impiegandola come puro pretesto per dar sfogo (e di questo gliene siamo grati) all’amore per la fotografia di cui aveva già dato prova con i suoi precedenti lavori: I giorni del cielo (un film del 1978 con la fotografia magistrale di Néstor Almendros); La sottile linea rossa (film del 1998 con la fotografia di John Toll); Il nuovo mondo (un film del 2005 ancora con la fotografia di Emmanuel Lubezki). E.P. S.B.

lunedì 12 settembre 2011

L'angelo sterminatore



Nel 1962 Luis Buñuel colpisce il sistema costituito, borghese e reazionario, con una beffarda e cinica opera surrealista. Forse la più surrealista della sua produzione.

Dopo una serata a teatro, un gruppo di personaggi appartenenti all’alta borghesia messicana si riunisce in un’elegante villa, consumando la propria cena fra chiacchiere senza importanza, pettegolezzi e piccoli flirt. Vengono così rappresentate le bassezze e le perversioni degli invitati ma anche le sovrastrutture grottesche delle convenzioni sociali dell’epoca.

Arrivato il mattino, quando ormai gli invitati si decidono di andarsene, si rendono conto che non riescono ad attraversare la porta, nonostante sia aperta. Il nervosismo e la tensione aumentano. Uno degli ospiti muore e il cadavere viene nascosto in un armadio. Il tempo trascorre e anche dall'esterno della casa i tentativi per entrare falliscono uno dopo l'altro. Gli ospiti, sorpresi dai bisogni primari tra cui la fame e la sete, iniziano a sentirsi addosso il peso dei giorni e della frustrazione: iniziano così i litigi e le accuse.

Le convenzioni finiscono per cedere il posto ad un crudele gioco al massacro, che in qualche modo allude all’incomprensibilità e al caos che regnano nella civiltà moderna e che contraddistinguono la condizione umana.

Solo all’ultimo sarà trovato il modo per uscire. Gli ospiti si rimetteranno nella posizione in cui si trovavano all'inizio della serata, ma anche a questo punto il delirio non è terminato.

Presentato al Festival di Cannes nel 1962, il film di Luis Buñuel, tratto dal testo teatrale “Los naufragos de la calle Providencia” di José Bergamin, si propose come un dissacrante manifesto antiborghese, non senza suscitare polemiche e disapprovazioni.

Il registra spagnolo, all’epoca censurato in patria dal regime franchista, attinge a piene mani alle origini surrealiste del proprio cinema per dar vita ad un’opera ricca di invenzioni fantastiche: una graffiante commedia grottesca che precipita ben presto in una dimensione completamente irreale ed onirica, dominata dalle regole dell’assurdo e del non-sense.

I vizi e le meschinità della classe borghese rappresentati da Buñuel passano attraverso l’alterazione della sintassi narrativa propria de surrealismo. Non solo. Lo stravolgimento degli eventi viene pilotato dai percorsi reconditi dell’inconscio. Per questo il surrealismo è stato definito come automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.

In altre parole l’operazione surrealista di Buñuel intende esprimere il dissidio fra società borghese e rivoluzione. E ciò a condizione di intendere la società borghese nell’insieme delle sue regole comportamentali, sessuali, ideologiche ed economiche; e a condizione d’intendere per rivoluzione non soltanto l’azione politica, ma l’insieme di tutte quelle rotture e violazioni – la cui complessa manifestazione giace sui diversi e molteplici piani dell’esistenza individuale e sociale – che investono un ordine costituito e lo mettono a soqquadro.

Infine, l’uso della ripetizione. Buñuel dichiara di essere il primo regista che utilizza questo espediente narrativo poiché una scena ripetuta crea un senso di ossessione, di angoscia e di mistero. Fin dalle prime sequenze Buñuel inserisce una serie di ripetizioni, che danno alla struttura stessa del film un andamento circolare, così che L'Angelo sterminatore sembra non avere un finale vero e proprio e si conclude con una sospensione. Lo spettatore non ha la sensazione che qualcosa si sia compiuto, anzi, è proprio nella sequenza finale che tutto ritorna in modo esponenziale e amplificato.

Il tempo è dissolto. Rimangono solo pulsioni.

Così nella lettura di Gilles Deleuze, la poetica di Buñuel è permeata da un surrealismo nero che mette in evidenza i mondi pulsionali e originari: gli istinti, le pulsioni, i desideri rimossi tendono verso il loro appagamento, tuttavia, secondo Buñuel, l'energia sublimata molto spesso si orienta verso la pulsione di morte e la distruzione piuttosto che verso la creatività e l'arte.