François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

sabato 19 gennaio 2013

Sorrentino - Garrone: la sfida continua…


Ritorno a parlare di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone e dei loro ultimi lavori: This Must Be the Place un film del 2011 interpretato magistralmente da Sean Penn e Reality un film del 2012 che ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2012, perché ritengo che il loro cinema, per quanto tecnicamente e concettualmente diverso, sia il miglior risultato stilistico nello scenario italiano contemporaneo.


Senza entrare nell’analisi delle rispettive sceneggiature, e limitandomi a segnalare che si tratta della rappresentazione in entrambi i casi del percorso di due uomini (i protagonisti) che tuttavia procedono in direzioni esattamente opposte: l’uno, nel caso di Sorrentino, verso la catarsi ed il miglioramento interiore, l’altro, nel caso di Garrone, verso il deterioramento e la distruzione del Se, voglio analizzare due sequenze, credo, emblematiche, delle due pellicole, come tali capaci di significare e sintetizzare lo stile autoriale dei due registi.


Per quanto riguarda This Must Be the Place, mi voglio soffermare sulla sequenza in cui Cheyenne, il cantante dark interpretato da Sean Penn ed ispirato al leader dei Cure Robert Smith, mettendosi alla ricerca di un vecchio carnefice nazista, si imbatte in una sua professoressa del liceo (interpretata da Joyce Van Patten), del tutto inadeguata e superficiale nella valutazione storica dell’olocausto. Fin dall’inizio, quando Cheyenne intravede l’anziana insegnante in un paesino americano di provincia, la mdp si muove lentamente (utilizzando carrelli o movimenti a seguire) appena poco distante dall’oggetto della ripresa in un modo tale da sottolineare l’approccio oggettivo e fenomenologico del cinema di Sorrentino.

Il cinema di Paolo Sorrentino è un lavoro svolto essenzialmente attraverso un distacco rispetto all’oggetto della propria rappresentazione. Il punto di vista di chi osserva la realtà cinematografica è posto accanto al regista e non all’interno con i personaggi che la popolano. Non ci sono riprese in soggettiva ma prevalentemente piani sequenza e lenti carrelli, ove l’oggetto diegetico è posto a debita distanza dall’obiettivo della cinepresa.

Allo stesso modo in cui il protagonista procede lentamente nella sua ricerca, i movimenti di macchina si approcciano "distaccati" nella rappresentazione cinematografica.

Per quel che concerne Reality, invece, ritengo significativa la sequenza in cui Luciano, il pescivendolo napoletano che si ossessiona all’idea di partecipare al Grande Fratello, incontra un barbone nella piazza in cui si svolgono i fatti salienti della vicenda, in un paese della provincia napoletana. Convinto che quel barbone sia in realtà un incaricato della produzione del Grande Fratello, chiamato a verificare l’adeguatezza del pescivendolo ad entrare nel reality-show, Luciano insiste per offrigli da mangiare e da bere, e questo per rabbonirsi i favori degli invisibili verificatori del programma televisivo. La mdp muovendosi lentamente in soggettiva, dall’interno all’esterno di un bar in cui si trovano i personaggi, non corregge l’esposizione del diaframma determinando delle immagini sovraesposte assolutamente deformate ed incomprensibili.

Nel cinema di Matteo Garrone il punto di vista dello spettatore si pone assieme a quello dei personaggi rappresentati, in un modo da esaltare la valenza semantica dell’immagine cinematografica. Le frequenti soggettive e i primi piani strettissimi determinano un ravvicinamento estremo tra l’osservatore e l’osservato che quasi determinano una loro fusione.

Come il protagonista inizia un percorso psicotico che lo condurrà alla rovina, così le immagini della rappresentazione cinematografica si fanno sempre più distorte ed inintelligibili.

In entrambi i casi, continuo a dire, un ottimo cinema. Continuate così…