François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

lunedì 21 giugno 2010

La marcia nuziale

Si tratta di un film a episodi di Marco Ferreri del 1965 con interprete principale Ugo Tognazzi.
I quattro episodi che compongono il film (Prime nozze, Il dovere coniugale, Igiene coniugale, La famiglia felice) hanno per tema la crisi dell'istituzione matrimoniale nella società contemporanea.

L’approccio alla tematica trattata è tradizionale ed al tempo stesso attuale. Si potrebbe dire per l’epoca in cui è stato realizzato è un film sperimentale, più che per il linguaggio utilizzato per le soluzioni narrative sviluppate a livello di sceneggiatura. L’uomo che crea l’istituzione del matrimonio ne determina la sua intima contraddizione. Si cerca la stabilità nel legame di coppia ma insieme si vive nella ricerca costante dell'altro e del diverso, avvinti dalle proprie pulsioni e dai propri istinti.

In “Prime nozze” due coppie dell'alta borghesia 'combinano' le nozze tra i rispettivi cani di razza. Dopo un lungo fidanzamento (durante il quale la cagnetta è costretta a indossare un paio di mutande), il matrimonio viene effettivamente celebrato presso il notaio e consumato nello studio del veterinario (che ha predisposto una camera nuziale).

Ne “il dovere coniugale” un padre di famiglia, dopo avere messo a letto il figlio, cerca invano di avere un rapporto con la moglie, ma questa, dopo un tira e molla ridicolo, riesce ad addormentarlo.

L'episodio “Igiene coniugale” è ambientato a New York. Frank partecipa con la moglie a una sorta di terapia di gruppo con altre coppie sposate, tra cui un sacerdote che ribadisce più volte la necessità di avere una vita sessuale fantasiosa per "salvare il matrimonio". Dapprima imbarazzato, Frank finirà per consumare un adulterio con la padrona di casa.

L’ultimo episodio dal titolo “La famiglia felice” è ambientato in un futuro prossimo (circa il 1990). L'istituzione matrimoniale è stata salvata grazie all'invenzione di automi che sostituiscono mogli, mariti e figli. Il protagonista vive felice su un'isola (sembrerebbe Giannutri) con la sua moglie-manichino, finché l'arrivo di un uomo più giovane, 'sposato' con un modello più avanzato di manichino, non lo mette in crisi. Dopo aver pregato invano il giovane di prestargli la moglie, il protagonista si ritira sconfortato in una grotta, dove racconta la sua delusione alla moglie-automa, che si mette a piangere.

Viene da chiedersi come mai il cinema contemporaneo non sia in grado di sfornare prodotti innovativi come negli anni ’60?

lunedì 14 giugno 2010

Ju-on (呪怨, Juon). The Grudge. Rancore.

"Quando qualcuno muore in preda a una grande rabbia, ne nasce una maledizione. Tale maledizione si concentra nel luogo della morte. Tutti coloro che entreranno in contatto con essa verranno consumati dalla sua furia"

domenica 13 giugno 2010

Io la conoscevo bene



Adriana è una giovane ragazza fuggita dalla provincia di Pistoia per tentare di costruirsi una vita più ricca ed emozionante a Roma.

La sua imprudente ed anarchica curiosità giovanile mista ad una sorta di imponderabile accettazione passiva dell’esistente, la spingono indolentemente a svolgere i mestieri più diversi, dalla manicure in un piccolo parrucchiere di periferia alla maschera anonima e sognante di un cinema, spingendola a vivere amori e relazioni apparenti e superficiali con uomini distanti ed avulsi dalla sua maliziosa e spesso ingestibile voglia di ricerca e sperimentazione.

Forse è proprio l’incoerente leggerezza di Adriana ad impedirle di vivere delle relazioni stabili e costruttive, ad affrontare concretamente, al di là delle sue astratte fantasie giovanili dettate dal suo radicale infantilismo, rapporti maturi a contatto con le necessità del presente.

Per Ettore Scola (co-sceneggiatore del film assieme a Maccari e allo stesso Pietrangeli), il bersaglio polemico non deve essere focalizzato sulla figura inconsistente ed irresponsabile di Adriana, nella sua cronica inabilità a determinare fino in fondo il proprio destino, di vegetare in un mondo ovattato di inesistente e fatto di illusioni e speranze vane, ma viceversa sugli uomini che la circondano e la desiderano.

Questo slittamento è importante, perché fa emergere la polifonia dei soggetti in campo, la coralità narrativa che si scompone in personaggi solo apparentemente secondari e tangenziali, ma in realtà decisivi per la chiara interpretazione dell’intero sviluppo filmico.

Dunque sono proprio gli uomini che desiderano e circuiscono Adriana, che esprimono il loro essere “senza spina dorsale”, elementi vuoti ed anonimi di un ingranaggio anch’esso silenzioso e massificante, che livella ed uccide ogni slancio progressivo e qualitativo che ammorba ogni slancio verso la trasformazione. Esempi di una società retta sull’apparenza dei luoghi comuni, su maschere sempre verdi come il formalismo e l’abitudine.

In tale prospettiva sono i personaggi maschili (che non possono – né vogliono – comprendere la complessa problematicità di Adriana), ad attribuire un ulteriore rilievo all’idea cardine di tutta l’opera di Pietrangeli, rappresentare il vecchio che fa violenza al nuovo, il passato che bussa con insistente violenza alle porte del futuro, ma al tempo stesso mostrarne, in modo attuale, l’intima contraddizione.

Così lo sguardo di Pietrangeli sulla figura instabile ed evanescente di una ragazza di provincia in cerca di fortuna si trasforma come sguardo su una società che sta cambiando. Allora, come oggi, la funzione sociale determina e ri-definisce il ruolo dei protagonisti della storia umana.

Dunque non è Adriana che non è in grado di relazionarsi concretamente agli uomini che ha intorno, a ciò che la circonda, ma è esattamente in contrario.

Ma ciò non toglie che l’abilità, spesso disarmante, di Adriana nel passare da un amante ad un altro come da un lavoro ad un altro, riproduca meccanicamente una condizione inesorabile, senza speranza né via di uscita, lasciandosi perciò trascinare nella corrente degli eventi, prospettando una dimensione umana ingenuamente indifferente sia al dramma della vita che alla scelta di una morte prematura.

Si potrebbe dire un infantilismo come stasi.

Nel buttarsi nel mondo della moda e del cinema, partecipando come comparsa ad una festa organizzata per consegnare un premio ad un grande attore (in cui aleggia quel cinismo grottesco e malinconico degli intellettuali falliti in cerca di identità de La terrazza di Scola), Adriana scopre finalmente la tragica dualità della vita, nel trovarsi in un istante sull’altare e l’istante dopo nel baratro dell’anonimato e della derisione.

Ed è proprio vivere un’esistenza totalizzante, per certi versi assoluta, libera cioè da vincoli e da precise responsabilità sociali e per questo annichilente, ibrida ed indecifrabile, che spinge Adriana, dopo una serata sfrenata passata a bere a ballare, al suicidio, anch’esso non preventivato né calcolato, ma presente fin dalle prime battute nell’intenzione della giovane. Come se tutto ciò che fa lo facesse con l’intima speranza della morte, di una fine che dia significato ed identità alla propria esistenza.

Si tratta di un finale “aperto”, in questo senso pienamente democratico (che già all’epoca suscitò polemiche e dibattiti), in cui ognuno può ritrovare la cifra di una storia di non facile declinazione.

Ci troviamo ancora una volta di fronte, nel cinema di Pietrangeli, ad una donna che ripudia i propri sogni per via di una società che la rifiuta e la respinge come elemento di disturbo ed innovazione, come voglia di essere – fino in fondo – quello che è senza compromessi.

La morte che chiude in un’unica soluzione l’esperienza della giovane protagonista e la fine del film (secondo una trovata che circa dieci anni dopo sarà ripresa – solo per certi aspetti – da Michelangelo Antonioni in Professione reporter) costituisce un espediente semiotico capace di produrre senso, al di là della semplice allegoria fallimento=fine=morte.

La potenza significante dell’inquadratura finale della m.d.p. che raggiunge in verticale l’asfalto del suolo riguarda non solo la vicenda umana di Adriana ma anche e più complessivamente l’andamento di una società, ancora legata alle strutture del passato, che è proiettata verso l’ignoto sviluppo del futuro.

È forse proprio nell’estremo e coraggioso atto finale del suicidio che la protagonista si emancipa dalle sue incapacità e dalla società, rimandando ad essa quelle responsabilità che superficialmente (la stessa società) aveva omesso di apprestare nei confronti del nuovo.

Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli (1965), con: Stefania Sandrelli, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Franco Fabrizi, Turi Ferro, Franco Nero, Jean-Claude Brialy, Mario Adorf, Enrico Maria Salerno, Solvi Stubing. Fotografia: Armando Nannuzzi. Montaggio: Franco Fraticelli. Musiche: Piero Piccioni.