François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

sabato 29 settembre 2012

SHAME

è un film del 2011 diretto da Steve McQueen presentato in concorso alla 68ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, dove il protagonista, Michael Fassbender, ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile.


Se vi chiedessero un giudizio sull’uomo, se vi chiedessero di dire se l’essere umano è buono o malvagio, se, scrutandovi negli occhi, vi domandassero quale sia realmente la natura umana, forse, di primo acchito non sapreste rispondere. Forse dovreste trattenere il respiro e veicolare l’attenzione verso voi stessi, per giungere ad un giudizio che non sia solo di valore. La verità è che non è possibile essere al tempo stesso giudici e giudicati, e l’osservazione distaccata e asettica della natura umana non è concepibile se non in termini ideali e ipotetici.

Film di grande impatto, oltre che per la cura fotografica, davvero eccellente, per il tema trattato che affronta l’individualismo e le psicosi dell’uomo moderno.

Il protagonista Brandon (Michael Fassbender), un newyorkese di successo all’apparenza integrato nella società è affetto da sex addiction, ovvero vive compulsivamente il sesso senza essere in grado di intraprendere - mantenere una relazione affettiva con una donna.

L’uomo vive il sesso come un bisogno sfrenato che non trova appagamento (dal sesso online alla masturbazione, dai rapporti mercenari con le prostitute a quelli con ragazze incontrate per caso in strada o per locali notturni). Una compulsione che lo conduce alla disperazione, forse, all’impossibilità di comunicare con la società che lo circonda.

McQueen mostra con freddezza le iperboli del protagonista e al tempo stesso il contesto sociale in cui è calato, la rarefazione dei rapporti umani, la difficoltà di comunicare e la deriva nell’individualismo o peggio ancora nella sociopatia.

Eppure, l’approccio del regista non è morale ne tantomeno psicologico, ma più semplicemente una rappresentazione fredda che spazia nella ipermodernità americana, che conduce traversando spazi rarefatti, freddi e geometrici l’alienazione di Brandon, come un oggetto tra altri oggetti.

Da questo approccio avalutativo scaturisce la forza autentica del film che riesce a restituirci con altrettanta forza alla nostra attenzione il nichilismo in cui siamo sprofondati e in cui ci stiamo perdendo.

Ottime le scelte nel posizionare la m.d.p. per rappresentare il contesto dove si muove il protagonista, mai troppo vicino mai troppo lontano. Ottime le ellissi adottate per sottolineare i passaggi narrativi della storia, e soprattutto interessante il lavoro (nel montaggio) di ripetere alcune sequenze o inquadrature al fine di rafforzare la struttura del film e forse ancora di più per ribadire lo stile dell’autore.


“In Hunger”, ha detto McQueen in conferenza stampa, “ho raccontato di un uomo chiuso in prigione, stavolta racconto di un uomo che trasforma la sua assoluta libertà nella propria prigione”.