François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

sabato 16 giugno 2012

Hunger

Ci vuole coraggio per rimanere fermi con la mdp in una inquadratura di circa dieci minuti. Ci vuole coraggio per rimanere fermi con la mdp dinnanzi al corridoio di un carcere inglese, ai tempi della repressione dei terroristi irlandesi dell’IRA, mentre un addetto pulisce metodicamente l’urina che fuoriesce dalle celle dei detenuti. Ci vuole coraggio nel rappresentare ed indugiare sulle terribili e disumane condizioni in un carcere di massima sicurezza, ed ancor di più quando la scena è resa maggiormente opprimente dalla fissità dell’immagine.



Hunger è un film di Steve McQueen, con Michael Fassbender (Gran Bretagna, Irlanda 2008).

Su un piano strettamente fotografico un’immagine in profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano sia quelli di sfondo, sono perfettamente a fuoco. Essa sarà maggiore quanto più distanziati saranno lo sfondo e il primo piano e quanto più quest’ultimo sarà vicino all’obiettivo. Per messa in scena in profondità si intende, di conseguenza, la disposizione di oggetti e personaggi su più piani e il loro reciproco interagire (Gianni Rondolino - Dario Tomasi, Manuale del film).

Fin dagli inizi del cinema ci si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione. Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, si realizzò che il modo migliore per farlo era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso; la scoperta fondamentale del cinema (D.W. Griffith) fu quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica.

Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità. Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, in quanto dà struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, poiché influisce inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema. L'elemento peculiare (specifico filmico) che permette al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica (Karel Reisz e Gavin Millar).

Per Stanley Kubrick questo dato è centrale al punto di affermare che il montaggio "è il solo aspetto specifico della sola arte del film".

Eppure, proprio Kubrick ha avvertito la necessità di sovvertire all’idea di un tipo di montaggio che - a volte per carenza di contenuti - si sovrappone alla narrazione giungendo a divenire un lavoro fine a se stesso. Per questo, il suo cinema si è sviluppato spesso in una interessante contrapposizione tra un’idea classica (oggettiva) nel modo di rappresentare il mondo ed un idea moderna (dinamica) di rendere la realtà attraverso i sentimenti dei suoi personaggi o protagonisti.

Si pensi ad Arancia Meccanica. Nella scena dello stupro, Alex e i suoi "drughi" entrano nella villa di uno scrittore e, dopo averla messa a soqquadro, violentano la moglie sotto gli occhi dell'impotente marito: prima dell'arrivo dei delinquenti, la macchina da presa posa il suo gelido sguardo sulla coppia seduta in salotto, regalandoci un'inquadratura in cui spiccano compostezza e simmetricità; ma non appena i drughi irrompono sulla scena, una camera a mano segue il deflagrare della violenza comunicando con efficacia il disorientamento delle vittime e il venir meno di qualsiasi controllo formale e sostanziale.

In Arancia Meccanica Kubrick giunge alle stesse conclusioni di Anthony Burgess, autore del romanzo omonimo: nel confrontare il libero arbitrio - e, dunque, la possibilità di scegliere il male - con la coercizione al bene, condanna quest'ultima come una violenza ancor più deprecabile di quella liberamente esercitata.

Per queste ragioni il lavoro di Steve Mcqueen è notevole, perché nell’azzerare in molte occasioni il montaggio, o almeno il modello forte del découpage classico dove si crea un rapporto coercitivo nei confronti dello spettatore, il regista inglese riconquista l’essenza del linguaggio cinematografico attribuendo all’immagine fotografica il suo ruolo primario nella estetica del film.

Secondo Andrè Bazin la strada che il cinema deve seguire è quella della riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica ed “evenemenziale”, nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale.



mercoledì 6 giugno 2012

Blow…up

Osservare a distanza ravvicinata significa solo un “ingrandimento” e non consente di scoprire qualche cosa di più sul mondo. Il quale rimane uno sfuggente enigma.

Qualsiasi IMMAGINE che si da alla vista è il risultato di un processo interiore che già non è più o ancora deve essere. L’IMMAGINE è una inflessione nel monotono scandire del tempo. È luce riflessa o solo dispersa. L’illusione è credere di essere in grado di conservare l’intima essenza di quella percezione (o creazione) attraverso la rievocazione pseudo-razionale dell’immagine in se stessa e non del processo che ha condotto ad essa. Come se quella traccia, lasciata negli occhi per poco potesse essere riacquisita alla mente con il facile surrogato di un “altra_immagine”. L’attimo non è più, o non è mai stato, o non vuole essere…

Nel 1966 Michelangelo Antonioni indaga sulla possibilità che ha la tecnologia di riprodurre la realtà, interrogando l’osservatore sul labile significato delle cose. In un parco di Londra un fotografo tenta svogliatamente di trovare qualche scatto interessante e si imbatte casualmente in una coppia di amanti. Li osserva da lontano, li fotografa, poi scoperto dalla donna è costretto ad allontanarsi. Solo quando tornerà nel suo studio per sviluppare le foto si renderà conto di aver assistito ad un evento che nel momento del suo svolgersi non era altrimenti distinguibile.

Tre sono le foto selezionate, dalle innumerevoli altre, come istanti cruciali per attribuire un senso ad una vicenda che, ai suoi occhi abituati a costruire ed ottenere esclusivamente inquadrature significative, sembra non averne. Ciascuna di esse è un ingrandimento (blow-up).

La prima foto che cattura l’interesse del protagonista ritrae la coppia abbracciata. Il viso della donna, che guarda fuori campo, manifesta chiaramente segni di inquietudine. Che cosa ha attirato la sua attenzione? Il nascere di questa domanda, sia nella nostra mente di spettatori, sia in quella del protagonista, implica, sia per noi che per lui, la necessità di attribuire un senso a tutto ciò che ricade nel nostro campo percettivo. Tale è infatti la concezione della verità universalmente diffusa. Una concatenazione razionale di rapporti di causa-effetto e di corrispondenze.



Ingrandendo il punto del parco che la donna sta osservando, un’area nascosta dalla vegetazione, ecco la seconda foto e la prima possibile concatenazione semantica nonché il primo slittamento della verità. Una figura umana emerge dalla macchia e stringe nel pugno una pistola, che pare puntata in direzione della coppia. Quindi, non si tratterebbe più soltanto di due semplici amanti sorpresi in un luogo solitario. Il fotografo ritiene a questo punto, con la sua presenza, di aver sventato un omicidio.



Uno sguardo più attento ad un’altra foto fa intravedere, però, al fotografo, qualcos’altro. Altro ingrandimento – la terza foto – e nuovo slittamento della verità. La sagoma di un corpo umano emerge dai cespugli. Quindi c’è stato un omicidio, o almeno così sembra.



Più il personaggio ritiene di avvicinarsi alla verità, più questa sfugge. Ingrandire e congelare la realtà non significa necessariamente renderla più comprensibile. E forse non c’è alcuna verità raggiungibile in modo definitivo.

In altre parole, l’ambizione umana di dominare il mondo grazie alla sua riproducibilità fallisce, creando un altro mondo, fatto di immagini, forse ancora più oscuro ed indiscernibile del primo.