François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

venerdì 16 agosto 2013

ANOTHER EARTH

Immagina di svegliarti in un posto che non conosci e di non sapere dove sei né se intorno a te c’è qualcuno. Qual è la prima cosa che faresti?



Film suggestivo (premiato al Sundance Film Festival nel 2011) reso maggiormente intenso dall’ambientazione tarkovskiana che fuoriesce dal soggetto e dalla messa in scena rarefatta e ricca di attese e sospensioni filmiche.

Rhoda Williams (Brit Marling, co-sceneggiatrice assieme al regista Mike Cahill) una ragazza appassionata di astri è stata ammessa al MIT (Massachusetts Institute of Technology). Festeggia, balla, beve. Poi mentre guida di ritorno a casa ascolta alla radio dell’incredibile evento dell’apparizione di un pianeta gemello della Terra, abbastanza vicino da essere avvistato ad occhio nudo. Rhonda guarda le stelle e distraendosi provoca un incidente mortale dove perdono la vita una donna incinta ed un bambino. Uscita dal carcere dopo quattro anni di pena la protagonista riacquista la libertà ma non l’appartenenza alla propria identità.

Qualcosa si è rotto ed il suo tentativo è quello di convivere con il senso di colpa per il delitto che ha commesso, azzerando tutte le convenzioni che prima caratterizzavano il proprio modo di vivere su questa terra. Eppure, l’apparizione di un pianeta del tutto speculare alla Terra, conduce la protagonista verso una nuova dimensione. Questo nuovo mondo, di fatto, non è abitato da alieni, ma dal doppio di ognuno di noi, “altri” noi.

Rhoda non ha intenzione di restare imprigionata in una caverna buia ad osservare le ombre del suo passato; preferisce vedere il reale, anche rischiando di accecarsi o essere risucchiata da un buco nero. Così, come i passeggeri dei vascelli, che partivano per l’Atlantico verso un nuovo mondo, erano i reietti ed gli emarginati, anche Rhoda crede di meritarsi un posto per il viaggio spaziale organizzato verso Terra 2.

Un pianeta identico e speculare alla Terra, dove ritrovare la propria identità o comunque il significato autentico delle cose. Rivive la poetica del doppio. Quel doppio “esistenziale” che fu oggetto di riflessione di Michelangelo Antonioni (Professione reporter, 1975) e di Stanley Kubrick (Shining, 1980).

L’uomo ha una seconda opportunità o è destinato a rimanere relegato nel proprio percorso originario? È possibile emendare le proprie colpe rielaborando la propria esistenza oppure occorre resettare per intero il nostro essere nel mondo, in questo mondo? Forse l’unica soluzione è veicolare l’attenzione verso la nostra immagine, senza filtri o possibili mediazioni.

Ma la riflessione cui conduce il film è anche propriamente metafilmica: il cinema non è altro che una proiezione del reale. Lo dice l’uomo-panino per strada (ovvero, la comparsa che lo interpreta): “non siamo reali”, sfoggiando un cartello con su scritto “i nostri ricordi sono impianti di quelli su Terra 2″. E quel 2 sembra un punto interrogativo. “Siamo una proiezione dell’immaginazione di Terra Due”.

Concetto ribadito nella sequenza in cui, dal SETI, la scienziata Joan Tallis prova a comunicare col pianeta gemello e scopre un mondo doppione (nel vero senso della parola): stesse persone, stessi nomi, stesse vite. Terra 2 è nient’altro che uno specchio, una membrana sottile come quella di un monitor e rimanda ad una realtà che sembra tangibile, ma è una copia irraggiungibile.

Il secondo pianeta, quello al di là dello schermo, non è veramente una nuova opportunità. E’ solo una replica sulla quale fantasticare, è il mondo che copia se stesso, creando l’illusione di replicare ogni essere umano, facendone un essere migliore, capace di non commettere gli stessi errori dell’originale. Doppi con cui interagire, per chiedere consiglio, per sfuggire alla solitudine. In altre parole, il sogno è conoscere il proprio doppio, incontrarlo, mentre intorno nessuno comunica con nessuno. A nessuno interessa degli altri che ha intorno.



Sulla scia di moltissimo cinema che pone alle basi del proprio essere la fantascienza quale presupposto per indagare filosoficamente il significato del reale (al margine di un’inquadratura, spunta la Trilogia di Asimov, padre della fantascienza moderna), si pone questo esordio alla regia del documentarista Mike Cahill.

Convince la messa in scena, votata ad un realismo di taglio documentarista, ove viene tratteggiato in modo convincente il senso di spaesamento (o alienazione se si preferisce) che vive la protagonista, e che in fondo viviamo noi tutti, incapaci di comprendere appieno le ragioni delle nostre azioni e prima ancora delle nostre scelte.

Il dato positivo del film, dunque, non va ricercato nella novità del soggetto, quanto piuttosto nella capace e moderna rielaborazione di molteplici elementi utilizzati nel cinema, fusi in un prodotto finale che ben si può definire onesto, perché non cade nella retorica o peggio ancora nella presunzione di fornire una soluzione.

Le premesse per fondare un lavoro di introspezione psicologica, senza scivolare nella banalità, possono essere espresse non tanto per il tramite di strabilianti effetti speciali o di complessi ed incomprensibili stratagemmi della scrittura, ma più semplicemente mediante la ricerca di poesia. Il dramma per essere autentico deve transitare per gli eventi e i sentimenti comuni, in cui tutti possono identificarsi.

Apprezzabile il contributo musicale dei neworkesi Fall On Your Sword, così come la buona interpretazione dei due protagonisti: la pressoché sconosciuta Brit Marling e il caratterista William Mapother (il cugino di Tom Cruise); la compostezza dolorosa delle loro interpretazioni permette di entrare in sintonia con i rispettivi personaggi, delineati con pudore e insieme profondità.

“…e vidi la sua immagine riflessa nello specchio” (Solaris, Stanislaw Lem, 1961)