François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

lunedì 11 febbraio 2013

La migliore offerta di Giuseppe Tornatore

Gli ingranaggi sono come le persone: se stanno molto tempo insieme finiscono per assumere le forme reciproche”.

Amare la pittura e sapere impugnare un pennello non basta per diventare un pittore… ci vuole un mistero che tu non ha mai posseduto”.

Gli ingranaggi di un film come La migliore offerta finiranno per assumere forme reciproche e combacianti nel corso delle oltre due ore di proiezione? Sicuramente sì, e comporranno anche un dipinto che, pur con qualche eccessiva pennellata, assurgerà sicuramente allo status di opera d’arte.

Giuseppe Tornatore, uscito dal fortunato ma restrittivo territorialismo geografico delle pellicole precedenti, crea un film perfetto come un ingranaggio, in cui le singole parti, ben equilibrate, convergono verso una sofferta ma felice composizione finale.

Il celebre critico e battitore d’aste Virgil Oldman viene contattato da Claire Ibbestaine per la stima e la dismissione delle opere della villa che ella ha ereditato dai defunti genitori. Fin dall’inizio la giovane Claire comincia con Oldman un sottile gioco a nascondino che avviluppa via via anche lo spettatore: ella soffre di un’invalidante forma di agorafobia che le impedisce di uscire dalla sua stanza e di mostrarsi al mondo, e comunica con mister Oldman (un magistrale Geoffrey Rush) attraverso la porta dell’appartamento in cui vive all’interno della stessa villa.

Va da sé che l’austero critico, abituato a valutare ogni cosa attraverso la vista, è costretto al confronto proprio in assenza del senso su cui ha fondato il suo talento e la sua rigida esistenza. E forse, anche per questo le conseguenze saranno imprevedibili…
Ogni elemento nel film è ben dosato e usato con un’accortezza che sfiora la ruffianeria. A cominciare dalla sceneggiatura, sobria e ammiccante, fatta di dialoghi ben confezionati la cui punta di diamante sono le tre-quattro citazioni che resteranno nell’immaginario e con le quali il film verrà identificato ad libitum. La fotografia serve egregiamente lo scopo, fredda e iconica nell’ovvio estetismo, fredda e livida nella rappresentazione di un mondo d’elite, fredda e limpida nell’imprevisto schiudersi dei sentimenti.

Sceneggiatura che suggerisce imperiture tematiche: la diffidenza verso il genere umano, mista e in contrasto con l’astratta ammirazione per le donne, fino all’arrivo di Claire, Claire sublimazione fisica di tutte le donne fin lì amate solo su tela; l’ineluttabile natura delle pulsioni umane, nella duplice esca lanciata: l’esca dell’arte (con gli ingranaggi dell’automa di Vaucansier) e l’esca dell’amore (con gli altrettanto complessi ingranaggi della donna da amata): amore come opera d’arte, dunque, o arte come (incompleta) educazione sentimentale?...

L’unico difetto di un film del genere, se di difetto si parla, è l’eccessiva durata della pellicola – ma una durata che, del resto, non stanca, non toglie nulla alla concentrazione né all’identificata suspance della trama.

La migliore offerta è come una delle più affascinanti opere: alla quale si perdonano i difetti (di verosimiglianza), gli eccessi (di compiacimento), la tortuosità (del viluppo), l’autoreferenzialità di una recitazione senza pari (Geoffrey Rush), in nome dell’amore e dell’arte.

Tecnicamente nulla di particolare. Tornatore più che muovere la macchina da presa sembra essere concentrato nel seguire gli sviluppi della fabula, calando “naturalisticamente” lo spettatore nella messinscena del giallo. Tra le poche eccezioni la falsa soggettiva quando il protagonista, ritornato nella villa di Claire Ibbestaine una volta scoperto il furto della sua collezione di dipinti, si appresta a ricercare la donna sparita in un crescendo di panico e rabbia. La mdp segue il procedere in soggettiva della sua ricerca, poi un stacco netto ci mostra il personaggio in modo oggettivo, elemento tra gli elementi della diegesi.

Sul piano della sceneggiatura, ancora una volta il regista (“La sconosciuta” del 2006, ma prima ancora il bellissimo “Una pura formalità” del 1994) utilizza il giallo come contesto per narrare una vicenda in cui, nonostante la drammatica evoluzione del protagonista, la rappresentazione scivola nel grottesco. Questo, forse, non per compiacersene, ma per rammentare che l’unico modo per divincolarsi dalle strette morse del conformismo e della logica dell’apparire sia quello di rompere bruscamente i legami della logica e della razionalità esasperata di questa società.

Ultima notazione: la “vera” Claire Ibbestaine, nana e autistica, ci ricorda inevitabilmente gli inquietanti nani di David Lynch…

Eva Giulia P.