François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

sabato 24 marzo 2012

Il petroliere (There Will Be Blood)



Straordinaria interpretazione di Daniel Day-Lewis che gli è valsa il premio Oscar come miglior attore protagonista nel film del 2007 diretto da Paul Thomas Anderson. L’attore inglese di adozione irlandese gestisce un lavoro attoriale impressionante per dar vita ad una delle più possenti interpretazioni della storia del cinema moderno.

La pellicola, ambientata nella California dei primi anni del Novecento, è liberamente adattata dal romanzo Petrolio! di Upton Sinclair e narra delle vicende di un minatore texano che trova un giacimento di petrolio e che è disposto a tutto pur di ottenere ricchezza e prestigio sociale.

Il prologo. Quindici minuti di cinema assoluto, implacabile, perforante: Il petroliere inizia con violente picconate che frantumano lo spettacolo, la sua etichetta e la sua retorica. Un rullo compressore che sbriciola tutto: pietre, muscoli, ossa. Non una parola, non una soluzione ammiccante, non una spiegazione. Musica ronzante come un’ossessione, inquadrature secche come sassate. C’è solo la febbre dell’avidità, una febbre che seppellisce ogni bisogno, ogni fatica, ogni dolore. La macchina cinema si cala nelle forme della bramosia, scava la terra, graffia la pietra, arraffa la ricchezza. E riesce a prendere fiato, a “parlare”, solo una volta che l’ha posseduta.

Nel disfarsi di una buona parte del romanzo che lo ha ispirato, il film di P.T. Anderson accantona la prospettiva politica attuata dallo scrittore americano per mettere a nudo la natura umana, in un modo che il discorso politico sulla società capitalista viene traslato sulla dialettica elementare, tra il corpo e lo spirito del protagonista (Daniel Plainview) - fisicissimo, ambizioso, stentoreo, ossessionato, avido, folle - e la Natura, solidissima e grezza.

Eppure, la valenza politica del testo non viene completamente tralasciata dal regista, ma traslata su un piano più propriamente epico, si direbbe metafisico. Così i temi svolti da Sinclair per denunciare lo scandalo dell'industria petrolifera e la vergogna del capitalismo selvaggio del primo novecento divengono materiale per la rappresentazione dell’indole umana.

Il contesto antropico che deriva dal film è intimamente perverso. La pura e spietata energia dell’uomo (un pioniere) sfida l'asprezza della terra per piegare le forme del territorio e delle relazioni umane; per divorare uomini e cose; per costruire una idea di civiltà senza società e profezia mortifera e materialistica contro ogni menzogna trascendente.

Plainview costruisce con immane sforzo fisico la sua solitaria utopia antisociale e misantropica. Il suo protendersi verso la Natura è un lavoro che deve essere inteso non nel suo significato nobile ma come esperimento caparbio, prima, ed impresa organizzata, poi, finalizzati ad un successo che lo pone in antitesi rispetto al genere umano, come distruzione dell’altro, che poi non è altro che nichilistica autodistruzione dell'individuo.

Eppure, nell’ambito di questa progressiva degenerazione dell’essere umano, il protagonista stabilisce i propri rapporti con l'altro: avvalendosi di finte idee sulla famiglia (l'orfano rimasto senza padre, il falso fratello), o comunque contrapponendosi con violenza al potere retorico ed ultraterreno della comunità religiosa (gestita “politicamente” da Eli Sunday). Ma si tratta, in entrambi i casi, di acquisizioni forzate. Il culto totalitario di Daniel Plainview fagocita e si appropria di ogni soggetto esterno al suo mondo, lo sbrana e ne fa scempio. I finti familiari fuggono o soccombono fino a che lo sradicamento del contropotere carismatico e in declino di Eli Sunday portano al compimento dell’obiettivo sotteso all'opera di Plainview: I’m finished (ho finito, sono finito, ho fatto tutto quello che avevo da fare).

La regia, assistita da un’ottima fotografia (di Robert Elswit) e da un’appropriata colonna sonora (di Jonny Greenwood), attribuisce maggiore spessore ai significati rappresentati. La macchina da presa di P. T. Anderson propone interessanti i piani sequenza, per lo più come lento avanzare verso il quadro nel suo insieme tralasciando la specificità dei singoli elementi compositivi. I dialoghi ben dosati in alcuni punti sembrano addirittura inutili per quanto è ben articolata la sceneggiatura. L’indugiare sulle espressioni, o sugli accadimenti, rimane pur sempre la tecnica più difficile che consente di distinguere l’opera cinematografica dal mero resoconto documentaristico.