François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

giovedì 23 giugno 2011

DILLINGER È MORTO

di Marco Ferreri (1969)



L’Uomo Moderno ha bisogno di indossare una maschera per vivere nell’ambiente circostante.
La surreale scena con cui l’opera di Ferreri ha inizio, ancor prima dei titoli dei testa, contiene in nuce ciò a cui assisteremo per tutta la durata, lenta e claustrofobica, del film: la necessità di un filtro fra l’uomo e il mondo, e come la mancanza di tale filtro renda l’uomo succube degli oggetti che, nella loro inconsueta abbondanza, tendono a sostituirsi all’essere umano e a sovrastare inesorabilmente la sua esistenza.
Durata lenta, eppure avvincente perché ipnotica: come il protagonista s’identifica, diventa parte e succube dell’ambiente saturo di oggetti che lo circonda, così anche lo spettatore viene gradualmente risucchiato (e in questo è evidente l’abilità del regista) dalla location, dalle ambientazioni chiuse e concluse che fanno pensare a una pièce teatrale, tanto la durata degli interni e la mimica dell’unico protagonista costituiscono, e reggono felicemente, la quasi totalità della non-trama.
Ambientazioni chiuse e prive di finestre, di vie d’uscita, sature di oggetti e di colori: metafore fisiche della condizione dell’uomo (post)moderno, de-privato di orizzonti e sottoposto all’incessante suggestione di merci con cui tende, per inesorabile osmosi, a identificarsi. È in tale contesto che il protagonista passa una lunga e solitaria nottata, rientrato dal lavoro: contesto che, ancorché stemperare e rilassare lo stress di un’intera giornata, esaspera la nevrosi dell’individuo. Un individuo di brillante posizione sociale, economica e persino familiare, come denota la presenza di una moglie bellissima a cui è legato da un rapporto distratto ma (apparentemente) affettuoso. Ma, nel momento in cui egli rimane da solo nella sua villetta, gli oggetti e l’inevitabile reificazione con essi hanno il sopravvento: così il tentativo di cucinare qualcosa diventa un pretesto per disseppellire dalle stipe di casa (e dalla propria coscienza) inquantificabili utensili senza identità e precisa funzione se non la loro mera cifra numerica: tra questi, per puro caso, una pistola incartata in un vecchio giornale che riporta la morte del famoso gangster Dillinger. Quasi sovrastato dal rinvenimento tangibile, dal contatto con la pistola, l’Individuo inizia a studiarla, smontarla, oliarla, con la cura e la morbosità proprie dell’interazione con un altro essere umano.
Ma la lunga notte dell’Individuo è costellata di simulacri, pulsioni, desideri brevi e fallaci: soddisfatta la sua improvvisa inclinazione culinaria, è la fascinazione per antonomasia dell’Uomo Moderno che attrae tutta la sua attenzione: lo schermo, sia esso ipnotico sottofondo alle sue attività culinarie e armaiole o, dopo la cena, sotto forma delle diapositive delle vacanze che egli guarderà per ore e con sempre maggior partecipazione, mimando i gesti e le voci, al parossismo di una totale identificazione con esse. Schermo come emblema dei media, presenti anch’essi nell’infatuazione che la giovane cameriera nutre per la star del momento e nei poster appesi in camera che ella venera quali simulacro di essa.
Svanito l’ennesimo simulacro, all’Individuo senza requie (poiché il bombardamento di input e suggestioni non lascia spazio a un riposo mentale, salvo indossare la maschera-filtro da lui stesso progettata) non resta che sfogare sulla propria quotidianità il surplus di informazioni subìte. È così che Egli tenta un amplesso facile e fugace con la cameriera, insoddisfacente proprio perché facile e fugace; si aggira, e qui la claustrofobia delle locazioni sembra raggiungere il parossismo e lo spettatore compiere la definitiva immedesimazione con le percezioni del protagonista, tra il salotto e la stanza da letto in cui la bellissima moglie dorme distante; compie infine, con la pistola emblematicamente dipinta a colori sgargianti (rossa a pois bianchi) l’insensato delitto, senza reazione per alcuno, attori o spettatori, poiché entrambi ormai alienati dall’anestetizzante conforto della debordante materia circostante.
Dopo il delitto, l’Individuo si dirige, in un’alba di plastica, verso un molo ampio e luminoso. Il fatto che a quel molo si giunga attraverso la grotta di Byron non provoca alcun soprassalto di coscienza né all’Individuo, novello reo di un crimine, né sdegno da parte di uno spettatore esterno e consapevole.
Anche le poche parole che l’Individuo rivolge al mozzo annegano nel mare (è il caso di dirlo) del non-sense generale. E così l’individuo parte, verso un sole apparentemente caldo e vivo, in realtà anch’esso mero oggetto alla stregua di tutti quelli che, in assenza di maschere, inglobano e possiedono l’Uomo Moderno.
Recitazione e mimica ineffabile del protagonista Michel Piccoli, imprescindibile della felice riuscita del film. Ottimi i comprimari, uno o due in tutto (tra cui una giovane Annie Girardot). Straordinario film di Ferreri, precursore dei tempi, un occhio già analitico verso ciò che stava appena accadendo: quasi uno sguardo dal futuro, incomprensibile per i contemporanei (tanto l’accaduto in fieri quanto a maggior ragione l’occhio critico su di esso): il tutto con la sapiente nonchalance di chi non stia facendo nulla di speciale, anzi proprio nulla in generale.
Descrivere il proprio tempo in maniera efficace e non retorica, è sintomo di talento. Descriverlo fingendo di oziare, di bighellonare con la macchina da presa alla stregua di un filmino domestico, riuscendo persino a far dimenticare che si stia descrivendo qualcosa, non è da tutti. È da pochi eletti che, se anche non progettano maschere anti-gas a far da filtro con la Realtà (o forse sì?), si chiamano Geni (Eva Giulia).