François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

lunedì 16 gennaio 2012

Overlooking. Oltre lo sguardo.



“Overlooking” è il titolo scelto per la retrospettiva e il convegno romano dedicati a Stanley Kubrick, si riferisce al progetto stilistico e alla visione del mondo di Kubrick, che tenta, in tutto il suo cinema, di andare oltre, over, al di là della realtà superficiale delle cose, per sperimentare uno sguardo diverso, che vede in profondità. Magari con uno sguardo strabico e paranoide, come quelli di Jack Nicholson in The Shining, di Malcom McDowell in A Clockword Organge, di Vincent D’Onofrio in Full Metal Jacket.

“Overlook” è il nome dell’hotel dove Jack Torrance e famiglia si chiudono in un ritiro che sarà incubico, ma per noi anche formula metaforica per analizzare un cinema visionario, complesso, dalle molteplici letture e interrelazioni.

<< vedere, rivedere, stravedere. Sarà possibile inventare uno stravedere come possibile ulteriore significato di to overlook >> scrive giustamente Enrico Ghezzi nel suo “castoro” dedicato a Kubrick. Si tratta infatti di un cinema che da un lato propone uno sguardo diverso (sopra, attraverso, sorvegliante, strabuzzato, aguzzo, tollerante, stregato, a seconda dei molteplici significati del verbo to overlook); dall’altro impone un “di più” anche allo spettatore, uno sguardo attento, tagliente, profondo. Sulla realtà e sul testo filmico.

Il cinema di Kubrick è dunque un cinema altamente riflessivo. Sia perché riflette sulla storia, sui generi, sulla letteratura, con un segno stilistico sempre originale e innovativo; sia perché riflette su se stesso, è autoreferenziale, propone un’indagine sul terreno del metalinguaggio.

È un cinema che sperimenta sempre, utilizzando i codici di Hollywood per poi trasgredirli inevitabilmente. È un cinema che coniuga America ed Europa, spettacolo e authorship. Kubrick percorre il viaggio inverso a quello della maggioranza degli “emigranti” cinematografici: invece che dall’Europa a Hollywood, fugge dall’America all’Inghilterra, proprio perché la sua dimensione autoriale si scontra con le regole dell’industria statunitense.

Kubrick mette in gioco la Storia, la letteratura, i generi. Dai primati di 2001: Odissea nello spazio alla Roma di Spartacus, dalla Grande guerra di Orizzonti di gloria alla bomba atomica del Dottor Stranamore, dal Vietnam di Full metal Jacket sino agli scenari futuribili di Arancia meccanica e ancora di 2001, Kubrick è sempre attento a un contesto storico che ridisegna però con i codici dei generi: il film di guerra, il mitologico, il Vietnam movie, il noir, persino, seppur in modo criptico, il western. Usa la letteratura: se si corre la filmografia di Kubrick, si vede come essa abbia un peso indiscutibile sulla sua produzione. Dal ’56 in poi, si può dire che tutti i film sono ispirati da uno spunto letterario: The killing è tratto dal romanzo Clean Break di Lionel White, Paths of glory è tratto dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, Spartacus viene dal romanzo di Howard Fast, ed è sceneggiato da Dalton Trumbo, in odore di eresia al tempo del maccartismo. Lolita è la trasposizione del romanzo di Nabokov, che firma anche la sceneggiatura del film. Dr. Strangelove, or How I learned to stop Worrying and Love the Bomb è tratto dal romanzo Red Alert di Peter George; 2001: A Space Odyssey deriva da un’idea contenuta nel racconto The Sentinel di Arthur C. Clarke – che cosceneggia con Kubrick –; A Clockword Organge è preso dal romanzo omonimo di Anthony Burgess; Barry Lindon deriva dal romanzo di Thackeray Le memorie di Barry Lindon; The shining è tratto dal romanzo di Stephen King; Full Metal Jacket è ispirato al romanzo The Short-Timers di Gustav Hasford (che partecipa alla sceneggiatura), e il prossimo film di Kubrick attinge a Doppio sogno di Schnitzeler. Dunque, da The Killing in poi, dopo i film degli esordi, tutta la produzione artistica di Kubrick parte da uno spunto letterario su cui, però, il regista costruisce delle “opere” autonome, parte per apologhi filosofici o ideologici, per irridenti satire politiche o per esercizi sul piano dell’immaginario e della fiction. E poi il rapporto con la pittura, con la musica, con la psicanalisi, con l’Altro, con la Morte, con Dio; tante ancora sono le relazioni che il cinema di Kubrick suggerisce e impone. Ma tutte vengono poi shakerate in modo originalissimo, con grande ironia e voluta ambiguità.

<< Ma è l’ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto. – ha detto Kubrick – “Spiegarli” non ha senso, ha solo un superficiale significato “culturale” buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere >>. E tuttavia – nonostante queste provocatorie dichiarazioni –, proprio con questa “ambiguità del senso”, è necessario riflettere su Kubrick, offrendo al pubblico delle nuove generazioni una preziosa retrospettiva di film (sia doppiati – doppiaggio appositamente approvato dall’Autore – che in versione originale in video), in collegamento con le iniziative della Biennale di Venezia, e lavorando in particolare sulla regia kubrickiana, con un convegno angolato appunto sulla messa in scena, sulla recitazione e sull’attore. Perché è essenziale approfondire un’indagine sulla grammatica e sulla sintassi del regista, sui meccanismi linguistici che catturano lo spettatore; e insieme sulla nozione (ben più complessa in inglese) di play, nel senso di gioco, ma anche di rappresentazione, di recitazione, di esecuzione. Viene in mente la frase allucinatoria e paranoica di Jack (Nicolson/Torrance) in The Shining “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy…” ad ibitum. Solo lavoro e niente gioco rendono Jack un ragazzo triste e scemo. Ma forse anche: il lavoro, in senso di opera, art work, senza play, in senso di possibilità di recitarla, giocarla, suonarla quest’opera artistica, rende l’uomo pazzo.

Ci pare che Kubrick significhi proprio questo: costringere lo spettatore a mettersi in gioco completamente, con le sue pratiche alte e basse, con le sue convenzioni e ironie, identificazioni ed estraniamenti; costringerlo a misurarsi con doppi e tripli livelli di lettura, a coltivare la visione (anche per esorcizzare una sempre incombente follia quotidiana), a coltivare un progetto di Cinema ambizioso, che imponga tagli teorici sempre più alti (“Overlooking” di Vito Zagarrio – Dipartimento della Comunicazione Letteraria e dello Spettacolo – Università degli Studi di Roma Tre. Palazzo delle Esposizioni, Roma, 9-18 gennaio 1998).

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