François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

lunedì 26 aprile 2010

Occhi ampiamente chiusi

Uno sguardo irrompe d’improvviso, tra i titoli di testa, nella vita quotidiana di una giovane coppia newyorkese, mettendone a nudo la vera essenza, le incertezze, le contraddizioni, fino alle più recondite pulsioni.
I personaggi vengono attirati in un contesto sociale, quello dell’alta borghesia, al quale tuttavia appartengono solo per adozione, perché la storia, prima ancora che sociale, è storia privata, individuale.
Il percorso narrativo della vicenda è segnato da una articolazione che porta a risultati irreversibili: data una certa situazione iniziale di equilibrio, e dati, secondo il modello classico del racconto cinematografico, una serie di eventi di squilibrio, solo apparentemente si ritornerà, nel finale, ad una situazione di ri-equilibrio, perché qualcosa è cambiato, prima ancora che nella vicenda dei personaggi, nel modo di sentire dello spettatore.
Come in ogni altra storia del regista, un tarlo entra nell’impianto razionale prodotto dall’uomo, vi si annida, subdolamente, fino a corroderlo nella più intima costituzione.
E ciò avviene, su due ordini di livelli, tutti e due palesi, eppure, tutti e due, anche, profondamente complessi: la gelosia e la curiosità.
Palesi, perché entrambi questi sentimenti umani segnano, in modo inequivocabile, il tragitto compiuto dai personaggi nella storia; complessi, perché tale tragitto, che è per lo più un procedimento irrazionale, risulta indirizzato verso una meta che sfugge al controllo dell’uomo: l’ignoto dell’animo umano.
Ancora una volta un tema caro al regista: l’uomo “entra” nell’uomo per scovarne la vera natura, ma è costretto ad arrendersi di fronte all’incomprensibile trama della sua mente.
La coppia posta al centro dell’osservazione è una coppia agiata, dinamica, feconda, dove le mancanze dell’uno sono riempite, in modo complementare, dalle qualità dell’altra; eppure, è anche una coppia intorpidita, annoiata, legata alle proprie abitudini.
Il sistema è costituito, ed è oramai autoreggientesi, apparentemente inattaccabile dall’esterno, risulta alterabile proprio nelle sue stesse premesse.
A far saltare l’equilibrio è, infatti, sufficiente una imprevista rivelazione: (la moglie confessa al marito che qualche tempo addietro sarebbe stata disposta a lasciarlo per un altro uomo e, così, a mandare all’aria tutto, matrimonio e giovane figlia “se solo lui mi avesse voluta”).
Un attimo , intenso, fulminante, nel quale si accentrano tutti i desideri e tutte le passioni, è capace a mettere in discussione il progetto di una intera vita, coniugale e individuale.
Da questo momento in poi si innesca il meccanismo perverso della gelosia; è un pensiero ossessivo quello che attanaglia la mente del marito, in grado di spazzare via d’un sol colpo la certezza, prima assoluta, nei confronti della moglie. Quello che rimane, così, è soltanto un’immagine fissa: il momento sessuale in cui la moglie lo tradisce con l’altro uomo.
Questa immagine diventa invasiva, totalizzante, un punto di fuga senza più ritorno. E’ la curiosità tutto ciò che spinge l’uomo nel suo omerico viaggio attorno alla trama sottesa della sua anima, improvvisamente dispersa.
E l’oggettività della realtà viene rimpiazzata dall’irrealità del sogno, senza che un confine netto sia dato da comprendere ai personaggi, e agli spettatori.
Un uomo e una donna si amano, costruiscono una vita assieme, il tempo li stabilizza, la materialità li sostiene, ma c’è qualcosa che non può essere controllato, gli istinti più profondi, gli aspetti più nascosti della psiche, e allora tutto diviene relativo, tutto tremendamente incognito.
E a questo punto viene inferto il colpo più duro, che mai poteva essere dato dal regista: l’unica cosa per cui vale la pena vivere, l’amore, viene destrutturato, reso nei suoi termini essenziali.
Il sesso, le passioni, il fascino della novità, il gusto del diverso, fino alle più basse perversioni carnali, tutto è amore, o tutto non è amore?
Il film finisce con uno scambio di battute tra i due protagonisti che non lascia scampo, che spezza il fiato, che non consente di tornare indietro:
Bill(il marito): Cosa pensi che dobbiamo fare?
Alice(la moglie): Penso che prima dobbiamo ringraziare il destino, ringraziarlo per averci fatto uscire senza alcun danno dalle nostre avventure, sia da quelle vere che da quelle solo sognate…l’importante è che ora siamo svegli, e spero tanto che lo resteremo a lungo.
Bill: Per sempre?
Alice: no, non usiamo questa parola, mi spaventa.
La m.d.p. indugia per un poco sul p.p. della donna, e ancora lei: C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare il più presto possibile…
Bill: cosa?
Alice: …scopare…
Lo stacco è netto, e titoli di coda lasciano infastiditi, irritati, toccati nelle più intime convinzioni.
Ma è una provocazione… è il cinema di Kubrick.

2 commenti:

  1. Mi permetto una piccola correzione, sulla traduzione del titolo, non "Grandi occhi chiusi" ma "Occhi ampiamente chiusi". Mi pare che in queso modo l'ossimoro sia reso in maniera più efficace.

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