La vendetta è un desiderio di farsi giustizia generato da un impulso volitivo che segue al rancore o al risentimento. Nella mente del soggetto che intende vendicarsi esso ha subito un torto (sia esso reale o presunto) e vuole (ed ha bisogno) di "pareggiare i conti" con colui che è stato causa della sua sofferenza.
Sympathy for Mr. Vengeance (2002)
Old Boy (2003)
Sympathy for Lady Vengeance (2005)
Il regista coreano PARK CHAN-WOOK ha allestito dal 2002 al 2005 la trilogia della Vendetta.
giovedì 13 dicembre 2012
sabato 8 dicembre 2012
Happy Family
Deliziosa commedia diretta da Gabriele Salvatores nel 2010, ispirata dall'omonimo spettacolo teatrale scritto da Alessandro Genovesi, a sua volta influenzato dal dramma pirandelliano Sei personaggi in cerca d'autore.
Nell’affrontare con ironia il tema della creatività artistica e della crisi dei contenuti che affliggono qualunque produzione narrativa, Salvatores allestisce un film volutamente grottesco in cui i protagonisti (l’autore e i suoi personaggi), la trama, la stessa scenografia (forzata con predominanti cromatiche) materializzano la fragile impalcatura della comunicazione cinematografica.
Nel finale del film troviamo un omaggio al colpo di scena conclusivo de I soliti sospetti di Bryan Singer, ovvero una notazione al retroscena umano che affligge costantemente ogni autore nella sua produzione artistica, come peraltro espresso magnificamente da Anton Cecov, nella piece teatrale Il gabbiano (atto II), attreverso le parole di TRIGORIN “…Ma che cosa c’è di particolarmente bello nella mia vita? (Guarda l’orologio) Adesso devo andare a scrivere. Scusate, ma non ho tempo… (Ride) Voi, come si dice, mi avete pestato il callo prediletto ed ecco che comincio ad agitarmi e a irritarmi un po’. Del resto, parliamo pure. Parliamo della mia bella vita luminosa… Allora, da che cosa cominciamo? (Dopo aver riflettuto un po’) Ci sono delle immagini che s’impongono a noi, quando una persona pensa giorno e notte, per esempio, sempre alla luna; e anch’io ho la mia luna. Giorno e notte mi domina un solo assillante pensiero: io devo scrivere, io devo scrivere, io devo… Ho appena terminato un racconto, che già, chissà perché, devo scriverne un altro, poi un terzo, dopo il terzo un quarto… Scrivo ininterrottamente, come trascinato da un carosello, e non posso fare diversamente. E che cosa c’è qui di bello e di luminoso, vi domando? Oh, che razza di vita selvaggia! Ecco, adesso sono qui con voi, mi emoziono, e nello stesso tempo a ogni istante mi ricordo che mi aspetta un racconto che non ho terminato. Ecco, vedo una nuvola che assomiglia a un pianoforte, e penso: in qualche racconto dovrò dire che in cielo si librava una nuvola simile a un pianoforte. C’è, per esempio, odore di eliotropio. Mi faccio subito un nodo al fazzoletto: odore dolciastro, colore vedovile, ricordarsene nella descrizione di una sera estiva. Colgo me stesso e voi a ogni frase, a ogni parola, e mi affretto a rinchiudere tutte queste frasi e parole nel mio magazzino letterario: forse verranno buone! Quando termino un lavoro, corro a teatro o a pescare; qui vorrei almeno riposare, dimenticare, macché!, nella testa già mi sta rotolando una pesante palla di ghisa, ossia un nuovo soggetto, e già mi sento attratto dalla scrivania e devo affrettarmi di nuovo a scrivere e a scrivere. E così sempre, sempre, e non ho tregua da parte di me stesso, e sento che divoro la mia stessa vita, che per il miele che do a qualcuno nello spazio rubo il polline ai miei fiori migliori, strappo questi fiori e ne calpesto le radici. Non sono forse un pazzo ?”.
domenica 2 dicembre 2012
Architetture della Visione (4)
Requiem for a Dream è un film del 2000 diretto da Darren Aronofsky, tratto dall'omonimo romanzo del 1978 di Hubert Selby Jr. (con Ellen Burstyn: Sara Goldfarb; Jared Leto: Harry Goldfarb; Jennifer Connelly: Marion Silver). Fu presentato fuori concorso al 53º Festival di Cannes.
sabato 24 novembre 2012
Harvey
Ottimo film, un gioiello del passato da vedere nel presente che può dare spunti per il futuro.
Una deliziosa commedia diretta nel 1950 da Henry Koster, il soggetto è tratto dalla pièce omonima di Mary Chase, vincitrice del premio Pulitzer nel 1945.
Straordinario James Stewart, interprete di ogni tempo, capace di calarsi anche nei panni di un personaggio surreale in una delle fasi sociali e politiche più critiche che la storia americana possa ricordare. In quegli anni imperversava negli Stati Uniti il maccartismo (dal nome di Joseph McCarthy, senatore repubblicano del Wisconsin attivo in politica in quegli anni) che come noto fu caratterizzato dall'intenso sospetto anticomunista, durato dai tardi anni quaranta fino a circa la metà del decennio successivo.
Ebbene, la commedia, per quanto incentrata sui temi della capacità di comunicare degli uomini e della loro limitatezza nel recepire anche il diverso, si mostra anche come lavoro metaforico della società americana degli anni cinquanta.
Il protagonista, un uomo di buona condizione sociale, afferma di avere per amico un grosso coniglio bianco che peraltro nessuno vede oltre a lui. Per questo, i suoi familiari, preoccupati per le reazioni che le persone possano avere da questa visione, decidono di farlo rinchiudere in una clinica psichiatrica. Dopo un'incredibile sequela di equivoci si sistemerà tutto, ed anzi alla fine, inaspettatamente, sarà proprio uno dei medici coinvolti, inizialmente scettico, a ricredersi sull'esistenza del coniglio ("pooka") Harvey.
Nel 2000 l'American Film Institute ha inserito il film al 35º posto della classifica delle cento migliori commedie americane di tutti i tempi.
Una deliziosa commedia diretta nel 1950 da Henry Koster, il soggetto è tratto dalla pièce omonima di Mary Chase, vincitrice del premio Pulitzer nel 1945.
Straordinario James Stewart, interprete di ogni tempo, capace di calarsi anche nei panni di un personaggio surreale in una delle fasi sociali e politiche più critiche che la storia americana possa ricordare. In quegli anni imperversava negli Stati Uniti il maccartismo (dal nome di Joseph McCarthy, senatore repubblicano del Wisconsin attivo in politica in quegli anni) che come noto fu caratterizzato dall'intenso sospetto anticomunista, durato dai tardi anni quaranta fino a circa la metà del decennio successivo.
Ebbene, la commedia, per quanto incentrata sui temi della capacità di comunicare degli uomini e della loro limitatezza nel recepire anche il diverso, si mostra anche come lavoro metaforico della società americana degli anni cinquanta.
Il protagonista, un uomo di buona condizione sociale, afferma di avere per amico un grosso coniglio bianco che peraltro nessuno vede oltre a lui. Per questo, i suoi familiari, preoccupati per le reazioni che le persone possano avere da questa visione, decidono di farlo rinchiudere in una clinica psichiatrica. Dopo un'incredibile sequela di equivoci si sistemerà tutto, ed anzi alla fine, inaspettatamente, sarà proprio uno dei medici coinvolti, inizialmente scettico, a ricredersi sull'esistenza del coniglio ("pooka") Harvey.
Nel 2000 l'American Film Institute ha inserito il film al 35º posto della classifica delle cento migliori commedie americane di tutti i tempi.
domenica 14 ottobre 2012
La double vie de Véronique
Intenso, affascinante, enigmatico. Il film del 1991 di Krzysztof Kieślowski contiene in se le linee giuda della poetica del regista polacco, morto prematuramente a 55 anni: la vita è un percorso incomprensibile se privilegiamo un approccio puramente razionale, se applichiamo alla nostra ricerca di senso i soli parametri della logica, trascurando di aprire la mente alle variabili sottese del caso o di una volontà superiore che sembrano nascoste negli avvenimenti quotidiani.
“Perché due? Durante lo spettacolo le tocco parecchio e si sciupano…”
Il tema trattato è quello del doppio: una ragazza polacca, Weronica, e una francese, Vèronique, pur non avendo nessun legame, sono uguali come gocce d'acqua, hanno lo stesso amore per la musica e la stessa malformazione al cuore. Per una misteriosa corrispondenza, la francese farà tesoro della tragica esperienza dell'altra. Eppure, nella rappresentazione del dramma, il regista si sofferma sul corpo, sulla sua energia e sul suo potere vitale. Il destino, per quanto terribile degli esseri umani, può essere governato dall’istinto e dalla spontaneità dei sensi.
“Il 23 novembre 1966 è stato il giorno più importante delle loro vite. È in quel giorno, alle tre del mattino, che sono nate tutte e due, in due città diverse, in due diversi continenti. Tutte e due avevano i capelli neri, occhi verde scuro. Quando tutte e due avevano due anni e sapevano già camminare, una si bruciò toccando il forno. Qualche giorno dopo anche l'altra avvicinò il suo dito al forno, ma all'ultimo momento lo ritirò: pertanto, non poteva sapere che si sarebbe bruciata”
Kieslowski affronta la dinamica delle coincidenze e delle opposizioni della fabula a volte indugiando sull’intensità dei sentimenti dei personaggi altre sulle tensioni del mistero come in un thriller. Nondimeno, il suo cinema è fatto di sensazioni. La fotografia è scura, seppiata, rivolta all’introspezione. La composizione privilegia ambienti chiusi e quando si pone in esterno utilizza filtri che deformano gli oggetti e le persone. I suoni sono tratti dalla realtà, in una scena addirittura estrapolati e resi con audio over per enfatizzarne la valenza nel contesto ambiguo rappresentato.
Ma quello che più conta del film è la rappresentazione dell’essere umano (donna o uomo che sia) nel senso carnale e della sua trasformazione fisica e spirituale che passa attraverso la vita e la morte e nell’amplesso – forse – trova la sua espressione più autentica. Vi sono tre scene di sesso: all’inizio della narrazione, nel mezzo e nel finale. In ogni occasione il rapporto sessuale della protagonista (la bella Irene Jacob) segna un passaggio tra una fine e un inizio, tra un mondo e un altro, soffrendo e gioendo al tempo stesso, tralasciando di comprendere quale sia il vero significato della sua sperimentazione fisica o spirituale.
Grande capacità di Kieslowski nel dotare di grazia ed insieme di sensualità l’interpretazione dell’attrice francese, naturale e leggera, capace di rendere con la sua espressività la tensione della messinscena.
Curiosità: il compositore Van den Budenmayer, citato nel film, in realtà non esiste, e la sua musica è opera di Zbigniew Preisner. Kieślowski lo usa sia nel Decalogo 9 che in Tre Colori: Film Blu.
giovedì 4 ottobre 2012
MESHES OF THE AFTERNOON
"il sogno che viene visto viene reso reale dalla visione, morte è la notte senza sogni" (Maya Deren)
Nel 1943 Maya Deren, usando una cinepresa Bolex 16mm di seconda mano, realizza il suo primo cortometraggio che a distanza di anni è considerato una delle pellicole d'avanguardia più influenti della storia del cinema statunitense.
Il film segue un percorso visionario che attinge dall’onirico. Eppure, nel suo essere slegato dai paradigmi della sceneggiatura, si dota di una costruzione ciclica, dove il punto di vista dell’osservatore (o spettatore) si perde in un continuo ripercorrersi ed inseguirsi, in un movimento circolare che non trova origine e fine. Quello che rimane sono immagini, oggetti, simboli forse, nell’imperscrutabile semantico che è lo stesso sogno, come materia grezza rielaborata oltre che dal sognatore da colui che accede alla visione del sogno.
La donna è la donna che segue i propri o i passi di un destino di morte, dove pur potendo non vuole rispecchiarsi. Nello scandire del tempo, tra la musica di Teiji Itō ed il silenzio, la mdp si sofferma su dettagli, tutti rilevanti eppure tutti allo stesso tempo privi di funzione propria, proprio come nella composizione onirica che raccoglie tutto e tutto rigetta.
La lettura che ne deriva è complessa ma anche affascinante. Qualcuno potrebbe sostenere la messa in scena di un suicidio, qualcuno come un'allegoria femminista, qualcun’altro, infine, come un assemblaggio puramente estetico che si esaurisce nell’associazione di immagini e dei loro significati correlati.
Forse l’obiettivo è quello di valorizzare un cinema nuovo epurato da sovrastrutture verticali, tipiche del film di finzione e di largo consumo, dove sono i rapporti causa effetto a rendere possibile l'azione, al fine di privilegiare l'esistenza di una cinema orizzontale che scende a scandagliare il senso profondo dell'immagine, il suo valore autentico che si fonda con gli elementi presenti sulla scena.
Viene così stabilito un approccio altamente simbolico, nella messa in scena di un campo d'azione dove le cose del sogno e quelle della vita irremediabilmente si fondono, in un modo, forse angosciante, in cui il sogno traccia una trama di rimandi e di concezioni sullo spazio e il tempo.
L’assenza di suono, la stilizzazione del personaggio interpretato dalla stessa Maya e la tecnica fotografica di tipo espressionista contribuiscono a rendere l’atmosfera del cortometraggio maggiormente drammatica, ma senza perdersi nella retorica o nell’eccesso intellettualistico. Si tratta più che altro di mostrare un’allegoria, gli oggetti della vita quotidiana (un coltello, una chiave, uno specchio, un grammofono) assumono un valore ulteriore, travalicando la loro posizione nel vivere moderno per sconfinare nello spazio insondabile del nostro subconscio fino ad infrangersi (come uno specchio che si rompe e si disperde nelle onde del mare) nella visione comune delle cose.
Ultima notazione: il film compare dal 1990 all'interno dell'archivio di film preservati nel National Film Registry ed è quindi da considerare come "film culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".
Nel 1943 Maya Deren, usando una cinepresa Bolex 16mm di seconda mano, realizza il suo primo cortometraggio che a distanza di anni è considerato una delle pellicole d'avanguardia più influenti della storia del cinema statunitense.
Il film segue un percorso visionario che attinge dall’onirico. Eppure, nel suo essere slegato dai paradigmi della sceneggiatura, si dota di una costruzione ciclica, dove il punto di vista dell’osservatore (o spettatore) si perde in un continuo ripercorrersi ed inseguirsi, in un movimento circolare che non trova origine e fine. Quello che rimane sono immagini, oggetti, simboli forse, nell’imperscrutabile semantico che è lo stesso sogno, come materia grezza rielaborata oltre che dal sognatore da colui che accede alla visione del sogno.
La donna è la donna che segue i propri o i passi di un destino di morte, dove pur potendo non vuole rispecchiarsi. Nello scandire del tempo, tra la musica di Teiji Itō ed il silenzio, la mdp si sofferma su dettagli, tutti rilevanti eppure tutti allo stesso tempo privi di funzione propria, proprio come nella composizione onirica che raccoglie tutto e tutto rigetta.
La lettura che ne deriva è complessa ma anche affascinante. Qualcuno potrebbe sostenere la messa in scena di un suicidio, qualcuno come un'allegoria femminista, qualcun’altro, infine, come un assemblaggio puramente estetico che si esaurisce nell’associazione di immagini e dei loro significati correlati.
Forse l’obiettivo è quello di valorizzare un cinema nuovo epurato da sovrastrutture verticali, tipiche del film di finzione e di largo consumo, dove sono i rapporti causa effetto a rendere possibile l'azione, al fine di privilegiare l'esistenza di una cinema orizzontale che scende a scandagliare il senso profondo dell'immagine, il suo valore autentico che si fonda con gli elementi presenti sulla scena.
Viene così stabilito un approccio altamente simbolico, nella messa in scena di un campo d'azione dove le cose del sogno e quelle della vita irremediabilmente si fondono, in un modo, forse angosciante, in cui il sogno traccia una trama di rimandi e di concezioni sullo spazio e il tempo.
L’assenza di suono, la stilizzazione del personaggio interpretato dalla stessa Maya e la tecnica fotografica di tipo espressionista contribuiscono a rendere l’atmosfera del cortometraggio maggiormente drammatica, ma senza perdersi nella retorica o nell’eccesso intellettualistico. Si tratta più che altro di mostrare un’allegoria, gli oggetti della vita quotidiana (un coltello, una chiave, uno specchio, un grammofono) assumono un valore ulteriore, travalicando la loro posizione nel vivere moderno per sconfinare nello spazio insondabile del nostro subconscio fino ad infrangersi (come uno specchio che si rompe e si disperde nelle onde del mare) nella visione comune delle cose.
Ultima notazione: il film compare dal 1990 all'interno dell'archivio di film preservati nel National Film Registry ed è quindi da considerare come "film culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".
sabato 29 settembre 2012
SHAME
è un film del 2011 diretto da Steve McQueen presentato in concorso alla 68ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, dove il protagonista, Michael Fassbender, ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile.
Se vi chiedessero un giudizio sull’uomo, se vi chiedessero di dire se l’essere umano è buono o malvagio, se, scrutandovi negli occhi, vi domandassero quale sia realmente la natura umana, forse, di primo acchito non sapreste rispondere. Forse dovreste trattenere il respiro e veicolare l’attenzione verso voi stessi, per giungere ad un giudizio che non sia solo di valore. La verità è che non è possibile essere al tempo stesso giudici e giudicati, e l’osservazione distaccata e asettica della natura umana non è concepibile se non in termini ideali e ipotetici.
Film di grande impatto, oltre che per la cura fotografica, davvero eccellente, per il tema trattato che affronta l’individualismo e le psicosi dell’uomo moderno.
Il protagonista Brandon (Michael Fassbender), un newyorkese di successo all’apparenza integrato nella società è affetto da sex addiction, ovvero vive compulsivamente il sesso senza essere in grado di intraprendere - mantenere una relazione affettiva con una donna.
L’uomo vive il sesso come un bisogno sfrenato che non trova appagamento (dal sesso online alla masturbazione, dai rapporti mercenari con le prostitute a quelli con ragazze incontrate per caso in strada o per locali notturni). Una compulsione che lo conduce alla disperazione, forse, all’impossibilità di comunicare con la società che lo circonda.
McQueen mostra con freddezza le iperboli del protagonista e al tempo stesso il contesto sociale in cui è calato, la rarefazione dei rapporti umani, la difficoltà di comunicare e la deriva nell’individualismo o peggio ancora nella sociopatia.
Eppure, l’approccio del regista non è morale ne tantomeno psicologico, ma più semplicemente una rappresentazione fredda che spazia nella ipermodernità americana, che conduce traversando spazi rarefatti, freddi e geometrici l’alienazione di Brandon, come un oggetto tra altri oggetti.
Da questo approccio avalutativo scaturisce la forza autentica del film che riesce a restituirci con altrettanta forza alla nostra attenzione il nichilismo in cui siamo sprofondati e in cui ci stiamo perdendo.
Ottime le scelte nel posizionare la m.d.p. per rappresentare il contesto dove si muove il protagonista, mai troppo vicino mai troppo lontano. Ottime le ellissi adottate per sottolineare i passaggi narrativi della storia, e soprattutto interessante il lavoro (nel montaggio) di ripetere alcune sequenze o inquadrature al fine di rafforzare la struttura del film e forse ancora di più per ribadire lo stile dell’autore.
“In Hunger”, ha detto McQueen in conferenza stampa, “ho raccontato di un uomo chiuso in prigione, stavolta racconto di un uomo che trasforma la sua assoluta libertà nella propria prigione”.
Se vi chiedessero un giudizio sull’uomo, se vi chiedessero di dire se l’essere umano è buono o malvagio, se, scrutandovi negli occhi, vi domandassero quale sia realmente la natura umana, forse, di primo acchito non sapreste rispondere. Forse dovreste trattenere il respiro e veicolare l’attenzione verso voi stessi, per giungere ad un giudizio che non sia solo di valore. La verità è che non è possibile essere al tempo stesso giudici e giudicati, e l’osservazione distaccata e asettica della natura umana non è concepibile se non in termini ideali e ipotetici.
Film di grande impatto, oltre che per la cura fotografica, davvero eccellente, per il tema trattato che affronta l’individualismo e le psicosi dell’uomo moderno.
Il protagonista Brandon (Michael Fassbender), un newyorkese di successo all’apparenza integrato nella società è affetto da sex addiction, ovvero vive compulsivamente il sesso senza essere in grado di intraprendere - mantenere una relazione affettiva con una donna.
L’uomo vive il sesso come un bisogno sfrenato che non trova appagamento (dal sesso online alla masturbazione, dai rapporti mercenari con le prostitute a quelli con ragazze incontrate per caso in strada o per locali notturni). Una compulsione che lo conduce alla disperazione, forse, all’impossibilità di comunicare con la società che lo circonda.
McQueen mostra con freddezza le iperboli del protagonista e al tempo stesso il contesto sociale in cui è calato, la rarefazione dei rapporti umani, la difficoltà di comunicare e la deriva nell’individualismo o peggio ancora nella sociopatia.
Eppure, l’approccio del regista non è morale ne tantomeno psicologico, ma più semplicemente una rappresentazione fredda che spazia nella ipermodernità americana, che conduce traversando spazi rarefatti, freddi e geometrici l’alienazione di Brandon, come un oggetto tra altri oggetti.
Da questo approccio avalutativo scaturisce la forza autentica del film che riesce a restituirci con altrettanta forza alla nostra attenzione il nichilismo in cui siamo sprofondati e in cui ci stiamo perdendo.
Ottime le scelte nel posizionare la m.d.p. per rappresentare il contesto dove si muove il protagonista, mai troppo vicino mai troppo lontano. Ottime le ellissi adottate per sottolineare i passaggi narrativi della storia, e soprattutto interessante il lavoro (nel montaggio) di ripetere alcune sequenze o inquadrature al fine di rafforzare la struttura del film e forse ancora di più per ribadire lo stile dell’autore.
“In Hunger”, ha detto McQueen in conferenza stampa, “ho raccontato di un uomo chiuso in prigione, stavolta racconto di un uomo che trasforma la sua assoluta libertà nella propria prigione”.
sabato 16 giugno 2012
Hunger
Ci vuole coraggio per rimanere fermi con la mdp in una inquadratura di circa dieci minuti. Ci vuole coraggio per rimanere fermi con la mdp dinnanzi al corridoio di un carcere inglese, ai tempi della repressione dei terroristi irlandesi dell’IRA, mentre un addetto pulisce metodicamente l’urina che fuoriesce dalle celle dei detenuti. Ci vuole coraggio nel rappresentare ed indugiare sulle terribili e disumane condizioni in un carcere di massima sicurezza, ed ancor di più quando la scena è resa maggiormente opprimente dalla fissità dell’immagine.
Hunger è un film di Steve McQueen, con Michael Fassbender (Gran Bretagna, Irlanda 2008).
Su un piano strettamente fotografico un’immagine in profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano sia quelli di sfondo, sono perfettamente a fuoco. Essa sarà maggiore quanto più distanziati saranno lo sfondo e il primo piano e quanto più quest’ultimo sarà vicino all’obiettivo. Per messa in scena in profondità si intende, di conseguenza, la disposizione di oggetti e personaggi su più piani e il loro reciproco interagire (Gianni Rondolino - Dario Tomasi, Manuale del film).
Fin dagli inizi del cinema ci si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione. Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, si realizzò che il modo migliore per farlo era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso; la scoperta fondamentale del cinema (D.W. Griffith) fu quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica.
Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità. Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, in quanto dà struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, poiché influisce inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema. L'elemento peculiare (specifico filmico) che permette al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica (Karel Reisz e Gavin Millar).
Per Stanley Kubrick questo dato è centrale al punto di affermare che il montaggio "è il solo aspetto specifico della sola arte del film".
Eppure, proprio Kubrick ha avvertito la necessità di sovvertire all’idea di un tipo di montaggio che - a volte per carenza di contenuti - si sovrappone alla narrazione giungendo a divenire un lavoro fine a se stesso. Per questo, il suo cinema si è sviluppato spesso in una interessante contrapposizione tra un’idea classica (oggettiva) nel modo di rappresentare il mondo ed un idea moderna (dinamica) di rendere la realtà attraverso i sentimenti dei suoi personaggi o protagonisti.
Si pensi ad Arancia Meccanica. Nella scena dello stupro, Alex e i suoi "drughi" entrano nella villa di uno scrittore e, dopo averla messa a soqquadro, violentano la moglie sotto gli occhi dell'impotente marito: prima dell'arrivo dei delinquenti, la macchina da presa posa il suo gelido sguardo sulla coppia seduta in salotto, regalandoci un'inquadratura in cui spiccano compostezza e simmetricità; ma non appena i drughi irrompono sulla scena, una camera a mano segue il deflagrare della violenza comunicando con efficacia il disorientamento delle vittime e il venir meno di qualsiasi controllo formale e sostanziale.
In Arancia Meccanica Kubrick giunge alle stesse conclusioni di Anthony Burgess, autore del romanzo omonimo: nel confrontare il libero arbitrio - e, dunque, la possibilità di scegliere il male - con la coercizione al bene, condanna quest'ultima come una violenza ancor più deprecabile di quella liberamente esercitata.
Per queste ragioni il lavoro di Steve Mcqueen è notevole, perché nell’azzerare in molte occasioni il montaggio, o almeno il modello forte del découpage classico dove si crea un rapporto coercitivo nei confronti dello spettatore, il regista inglese riconquista l’essenza del linguaggio cinematografico attribuendo all’immagine fotografica il suo ruolo primario nella estetica del film.
Secondo Andrè Bazin la strada che il cinema deve seguire è quella della riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica ed “evenemenziale”, nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale.
Hunger è un film di Steve McQueen, con Michael Fassbender (Gran Bretagna, Irlanda 2008).
Su un piano strettamente fotografico un’immagine in profondità di campo è un’immagine in cui tutti gli elementi rappresentati, sia quelli in primo piano sia quelli di sfondo, sono perfettamente a fuoco. Essa sarà maggiore quanto più distanziati saranno lo sfondo e il primo piano e quanto più quest’ultimo sarà vicino all’obiettivo. Per messa in scena in profondità si intende, di conseguenza, la disposizione di oggetti e personaggi su più piani e il loro reciproco interagire (Gianni Rondolino - Dario Tomasi, Manuale del film).
Fin dagli inizi del cinema ci si rese conto che riprendere un'intera scena a distanza fissa imponeva grossi limiti alla narrazione. Volendo mostrare allo spettatore il pensiero o le emozioni di un personaggio, si realizzò che il modo migliore per farlo era quello di avvicinare la macchina da presa, registrando così con più precisione l'espressione del viso; la scoperta fondamentale del cinema (D.W. Griffith) fu quella di rendersi conto che una sequenza deve essere composta da singole inquadrature incomplete, scelte ed ordinate in base a motivi di necessità drammatica.
Il cinema, attraverso il montaggio si è trasformato da semplice mezzo per registrare l'attualità in un mezzo estetico di grande sensibilità. Dunque il lavoro di montaggio è rilevante sia sul piano pratico, in quanto dà struttura e ritmo al film, sia su quello estetico, poiché influisce inevitabilmente anche sulla recitazione. La sua importanza è prioritaria e molti lo considerano l'essenza stessa del cinema. L'elemento peculiare (specifico filmico) che permette al cinema di assurgere ad autonoma espressione artistica (Karel Reisz e Gavin Millar).
Per Stanley Kubrick questo dato è centrale al punto di affermare che il montaggio "è il solo aspetto specifico della sola arte del film".
Eppure, proprio Kubrick ha avvertito la necessità di sovvertire all’idea di un tipo di montaggio che - a volte per carenza di contenuti - si sovrappone alla narrazione giungendo a divenire un lavoro fine a se stesso. Per questo, il suo cinema si è sviluppato spesso in una interessante contrapposizione tra un’idea classica (oggettiva) nel modo di rappresentare il mondo ed un idea moderna (dinamica) di rendere la realtà attraverso i sentimenti dei suoi personaggi o protagonisti.
Si pensi ad Arancia Meccanica. Nella scena dello stupro, Alex e i suoi "drughi" entrano nella villa di uno scrittore e, dopo averla messa a soqquadro, violentano la moglie sotto gli occhi dell'impotente marito: prima dell'arrivo dei delinquenti, la macchina da presa posa il suo gelido sguardo sulla coppia seduta in salotto, regalandoci un'inquadratura in cui spiccano compostezza e simmetricità; ma non appena i drughi irrompono sulla scena, una camera a mano segue il deflagrare della violenza comunicando con efficacia il disorientamento delle vittime e il venir meno di qualsiasi controllo formale e sostanziale.
In Arancia Meccanica Kubrick giunge alle stesse conclusioni di Anthony Burgess, autore del romanzo omonimo: nel confrontare il libero arbitrio - e, dunque, la possibilità di scegliere il male - con la coercizione al bene, condanna quest'ultima come una violenza ancor più deprecabile di quella liberamente esercitata.
Per queste ragioni il lavoro di Steve Mcqueen è notevole, perché nell’azzerare in molte occasioni il montaggio, o almeno il modello forte del découpage classico dove si crea un rapporto coercitivo nei confronti dello spettatore, il regista inglese riconquista l’essenza del linguaggio cinematografico attribuendo all’immagine fotografica il suo ruolo primario nella estetica del film.
Secondo Andrè Bazin la strada che il cinema deve seguire è quella della riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica ed “evenemenziale”, nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale.
mercoledì 6 giugno 2012
Blow…up
Osservare a distanza ravvicinata significa solo un “ingrandimento” e non consente di scoprire qualche cosa di più sul mondo. Il quale rimane uno sfuggente enigma.
Qualsiasi IMMAGINE che si da alla vista è il risultato di un processo interiore che già non è più o ancora deve essere. L’IMMAGINE è una inflessione nel monotono scandire del tempo. È luce riflessa o solo dispersa. L’illusione è credere di essere in grado di conservare l’intima essenza di quella percezione (o creazione) attraverso la rievocazione pseudo-razionale dell’immagine in se stessa e non del processo che ha condotto ad essa. Come se quella traccia, lasciata negli occhi per poco potesse essere riacquisita alla mente con il facile surrogato di un “altra_immagine”. L’attimo non è più, o non è mai stato, o non vuole essere…
Nel 1966 Michelangelo Antonioni indaga sulla possibilità che ha la tecnologia di riprodurre la realtà, interrogando l’osservatore sul labile significato delle cose. In un parco di Londra un fotografo tenta svogliatamente di trovare qualche scatto interessante e si imbatte casualmente in una coppia di amanti. Li osserva da lontano, li fotografa, poi scoperto dalla donna è costretto ad allontanarsi. Solo quando tornerà nel suo studio per sviluppare le foto si renderà conto di aver assistito ad un evento che nel momento del suo svolgersi non era altrimenti distinguibile.
Tre sono le foto selezionate, dalle innumerevoli altre, come istanti cruciali per attribuire un senso ad una vicenda che, ai suoi occhi abituati a costruire ed ottenere esclusivamente inquadrature significative, sembra non averne. Ciascuna di esse è un ingrandimento (blow-up).
La prima foto che cattura l’interesse del protagonista ritrae la coppia abbracciata. Il viso della donna, che guarda fuori campo, manifesta chiaramente segni di inquietudine. Che cosa ha attirato la sua attenzione? Il nascere di questa domanda, sia nella nostra mente di spettatori, sia in quella del protagonista, implica, sia per noi che per lui, la necessità di attribuire un senso a tutto ciò che ricade nel nostro campo percettivo. Tale è infatti la concezione della verità universalmente diffusa. Una concatenazione razionale di rapporti di causa-effetto e di corrispondenze.
Ingrandendo il punto del parco che la donna sta osservando, un’area nascosta dalla vegetazione, ecco la seconda foto e la prima possibile concatenazione semantica nonché il primo slittamento della verità. Una figura umana emerge dalla macchia e stringe nel pugno una pistola, che pare puntata in direzione della coppia. Quindi, non si tratterebbe più soltanto di due semplici amanti sorpresi in un luogo solitario. Il fotografo ritiene a questo punto, con la sua presenza, di aver sventato un omicidio.
Uno sguardo più attento ad un’altra foto fa intravedere, però, al fotografo, qualcos’altro. Altro ingrandimento – la terza foto – e nuovo slittamento della verità. La sagoma di un corpo umano emerge dai cespugli. Quindi c’è stato un omicidio, o almeno così sembra.
Più il personaggio ritiene di avvicinarsi alla verità, più questa sfugge. Ingrandire e congelare la realtà non significa necessariamente renderla più comprensibile. E forse non c’è alcuna verità raggiungibile in modo definitivo.
In altre parole, l’ambizione umana di dominare il mondo grazie alla sua riproducibilità fallisce, creando un altro mondo, fatto di immagini, forse ancora più oscuro ed indiscernibile del primo.
Qualsiasi IMMAGINE che si da alla vista è il risultato di un processo interiore che già non è più o ancora deve essere. L’IMMAGINE è una inflessione nel monotono scandire del tempo. È luce riflessa o solo dispersa. L’illusione è credere di essere in grado di conservare l’intima essenza di quella percezione (o creazione) attraverso la rievocazione pseudo-razionale dell’immagine in se stessa e non del processo che ha condotto ad essa. Come se quella traccia, lasciata negli occhi per poco potesse essere riacquisita alla mente con il facile surrogato di un “altra_immagine”. L’attimo non è più, o non è mai stato, o non vuole essere…
Nel 1966 Michelangelo Antonioni indaga sulla possibilità che ha la tecnologia di riprodurre la realtà, interrogando l’osservatore sul labile significato delle cose. In un parco di Londra un fotografo tenta svogliatamente di trovare qualche scatto interessante e si imbatte casualmente in una coppia di amanti. Li osserva da lontano, li fotografa, poi scoperto dalla donna è costretto ad allontanarsi. Solo quando tornerà nel suo studio per sviluppare le foto si renderà conto di aver assistito ad un evento che nel momento del suo svolgersi non era altrimenti distinguibile.
Tre sono le foto selezionate, dalle innumerevoli altre, come istanti cruciali per attribuire un senso ad una vicenda che, ai suoi occhi abituati a costruire ed ottenere esclusivamente inquadrature significative, sembra non averne. Ciascuna di esse è un ingrandimento (blow-up).
La prima foto che cattura l’interesse del protagonista ritrae la coppia abbracciata. Il viso della donna, che guarda fuori campo, manifesta chiaramente segni di inquietudine. Che cosa ha attirato la sua attenzione? Il nascere di questa domanda, sia nella nostra mente di spettatori, sia in quella del protagonista, implica, sia per noi che per lui, la necessità di attribuire un senso a tutto ciò che ricade nel nostro campo percettivo. Tale è infatti la concezione della verità universalmente diffusa. Una concatenazione razionale di rapporti di causa-effetto e di corrispondenze.
Ingrandendo il punto del parco che la donna sta osservando, un’area nascosta dalla vegetazione, ecco la seconda foto e la prima possibile concatenazione semantica nonché il primo slittamento della verità. Una figura umana emerge dalla macchia e stringe nel pugno una pistola, che pare puntata in direzione della coppia. Quindi, non si tratterebbe più soltanto di due semplici amanti sorpresi in un luogo solitario. Il fotografo ritiene a questo punto, con la sua presenza, di aver sventato un omicidio.
Uno sguardo più attento ad un’altra foto fa intravedere, però, al fotografo, qualcos’altro. Altro ingrandimento – la terza foto – e nuovo slittamento della verità. La sagoma di un corpo umano emerge dai cespugli. Quindi c’è stato un omicidio, o almeno così sembra.
Più il personaggio ritiene di avvicinarsi alla verità, più questa sfugge. Ingrandire e congelare la realtà non significa necessariamente renderla più comprensibile. E forse non c’è alcuna verità raggiungibile in modo definitivo.
In altre parole, l’ambizione umana di dominare il mondo grazie alla sua riproducibilità fallisce, creando un altro mondo, fatto di immagini, forse ancora più oscuro ed indiscernibile del primo.
giovedì 12 aprile 2012
Architetture della Visione (3)
D E A L E R
Regia e Soggetto: Benedek Fliegauf
Fotografia: Peter Szatmari
Montaggio: Karoly Szalai
Suono: Tamas Zanyi
Interpreti: Felician Kerestzes, Barbara Thurzò, Anikò Szigeti, Edina Balogh, Lajos Szakacs
2004 - Ungheria - 136’
"L'excursus sulla vita e gli incontri di uno spacciatore che, come moderno angelo dannato, vaga con la sua bicicletta in una città fantasma, dove in ambienti disabitati si intravvedono, per brevi attimi, esseri umani colti in folgoranti momenti di follia collettiva o immotivata violenza"
sabato 24 marzo 2012
Il petroliere (There Will Be Blood)
Straordinaria interpretazione di Daniel Day-Lewis che gli è valsa il premio Oscar come miglior attore protagonista nel film del 2007 diretto da Paul Thomas Anderson. L’attore inglese di adozione irlandese gestisce un lavoro attoriale impressionante per dar vita ad una delle più possenti interpretazioni della storia del cinema moderno.
La pellicola, ambientata nella California dei primi anni del Novecento, è liberamente adattata dal romanzo Petrolio! di Upton Sinclair e narra delle vicende di un minatore texano che trova un giacimento di petrolio e che è disposto a tutto pur di ottenere ricchezza e prestigio sociale.
Il prologo. Quindici minuti di cinema assoluto, implacabile, perforante: Il petroliere inizia con violente picconate che frantumano lo spettacolo, la sua etichetta e la sua retorica. Un rullo compressore che sbriciola tutto: pietre, muscoli, ossa. Non una parola, non una soluzione ammiccante, non una spiegazione. Musica ronzante come un’ossessione, inquadrature secche come sassate. C’è solo la febbre dell’avidità, una febbre che seppellisce ogni bisogno, ogni fatica, ogni dolore. La macchina cinema si cala nelle forme della bramosia, scava la terra, graffia la pietra, arraffa la ricchezza. E riesce a prendere fiato, a “parlare”, solo una volta che l’ha posseduta.
Nel disfarsi di una buona parte del romanzo che lo ha ispirato, il film di P.T. Anderson accantona la prospettiva politica attuata dallo scrittore americano per mettere a nudo la natura umana, in un modo che il discorso politico sulla società capitalista viene traslato sulla dialettica elementare, tra il corpo e lo spirito del protagonista (Daniel Plainview) - fisicissimo, ambizioso, stentoreo, ossessionato, avido, folle - e la Natura, solidissima e grezza.
Eppure, la valenza politica del testo non viene completamente tralasciata dal regista, ma traslata su un piano più propriamente epico, si direbbe metafisico. Così i temi svolti da Sinclair per denunciare lo scandalo dell'industria petrolifera e la vergogna del capitalismo selvaggio del primo novecento divengono materiale per la rappresentazione dell’indole umana.
Il contesto antropico che deriva dal film è intimamente perverso. La pura e spietata energia dell’uomo (un pioniere) sfida l'asprezza della terra per piegare le forme del territorio e delle relazioni umane; per divorare uomini e cose; per costruire una idea di civiltà senza società e profezia mortifera e materialistica contro ogni menzogna trascendente.
Plainview costruisce con immane sforzo fisico la sua solitaria utopia antisociale e misantropica. Il suo protendersi verso la Natura è un lavoro che deve essere inteso non nel suo significato nobile ma come esperimento caparbio, prima, ed impresa organizzata, poi, finalizzati ad un successo che lo pone in antitesi rispetto al genere umano, come distruzione dell’altro, che poi non è altro che nichilistica autodistruzione dell'individuo.
Eppure, nell’ambito di questa progressiva degenerazione dell’essere umano, il protagonista stabilisce i propri rapporti con l'altro: avvalendosi di finte idee sulla famiglia (l'orfano rimasto senza padre, il falso fratello), o comunque contrapponendosi con violenza al potere retorico ed ultraterreno della comunità religiosa (gestita “politicamente” da Eli Sunday). Ma si tratta, in entrambi i casi, di acquisizioni forzate. Il culto totalitario di Daniel Plainview fagocita e si appropria di ogni soggetto esterno al suo mondo, lo sbrana e ne fa scempio. I finti familiari fuggono o soccombono fino a che lo sradicamento del contropotere carismatico e in declino di Eli Sunday portano al compimento dell’obiettivo sotteso all'opera di Plainview: I’m finished (ho finito, sono finito, ho fatto tutto quello che avevo da fare).
La regia, assistita da un’ottima fotografia (di Robert Elswit) e da un’appropriata colonna sonora (di Jonny Greenwood), attribuisce maggiore spessore ai significati rappresentati. La macchina da presa di P. T. Anderson propone interessanti i piani sequenza, per lo più come lento avanzare verso il quadro nel suo insieme tralasciando la specificità dei singoli elementi compositivi. I dialoghi ben dosati in alcuni punti sembrano addirittura inutili per quanto è ben articolata la sceneggiatura. L’indugiare sulle espressioni, o sugli accadimenti, rimane pur sempre la tecnica più difficile che consente di distinguere l’opera cinematografica dal mero resoconto documentaristico.
lunedì 13 febbraio 2012
Stalker
« La debolezza è potenza, e la forza è niente. Quando l'uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido, così come l'albero: mentre cresce è tenero e flessibile, e quando è duro e secco, muore. Rigidità e forza sono compagne della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell'esistenza » (lo Stalker)
C’è una magia nelle inquadrature di Stalker che quasi ipnotizza. Al di là della durata e della sua dilatazione. Nel vuoto che si presume divenga o ritorni pieno, in quel confine che delinea tutto un sistema di attese, Tarkovskij ci descrive l’inquietudine e l’incertezza che contaminano la valenza dei paesaggi rappresentati e l'identità dei personaggi che entrano in campo.
Uno stillicidio, lento, di dubbi che conduce ad un turbamento nell’animo di chi osserva. Quasi una mistificazione nella messinscena. Nella relazione semantica - verso e da - lo spettatore, il quale rimane inerme di fronte all’ambiguità dei significati nascosti delle cose.
Stalker (Сталкер) è un film di fantascienza del 1979 diretto da Andrej Tarkovskij. Tratto dal romanzo “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij (1971), questo film rappresenta, come già Solaris, una personale interpretazione di Tarkovskij dello scritto originale.
Pur essendo di genere fantascientifico per la trama, lo svolgimento appartiene al cinema d'autore. Il lento e profondo viaggio catartico compiuto all'interno della cosiddetta zona, dove le tre diverse concezioni della vita dei protagonisti si scontrano e si mettono in discussione, trascende i dettami del film di genere.
La pellicola venne girata fra Dolgopa (Russia), Tallinn (Estonia) e Isfara (Tajikistan) nonché presso Chernobyl (Ucraina) e fu presentata al Festival cinematografico di Mosca nell'agosto del 1979 ed al Festival di Cannes, in Francia, il 13 maggio 1980. Il film uscì nelle sale italiane nella primavera 1981: la locandina recava un improbabile logo simile al titolo di Star Wars.
Un intellettuale (Anatolij Solonicyn) e uno scienziato (Nikolaj Grinko) - rispettivamente chiamati "Scrittore" e "Professore" per tutta la durata del film - si avventurano nella "Zona", un territorio rurale desolato e in rovina dove le normali leggi fisiche sono state stravolte per cause ignote. Isolata da un cordone di sicurezza governativo, in cui tuttavia gli stessi militari non osano spingersi, si vocifera che essa contenga una stanza in cui si possono avverare i «desideri più intimi e segreti»: è questo il luogo che i due uomini vogliono raggiungere. Per affrontare il viaggio con qualche sicurezza, i due ingaggiano uno "Stalker" (Aleksandr Kajdanovskij), una guida illegale esperta del territorio.
Dopo aver forzato un posto di blocco, la scena muta da un mesto bianco e nero (per l'esattezza un "seppiato") al colore. Lo Stalker condurrà il gruppo nel cuore della Zona seguendo un complicato percorso nel continuo sforzo di evitare ogni pericolo. La guida intima ai due uomini di seguire fedelmente le sue istruzioni se vogliono sopravvivere, ma a dispetto di quanto afferma e del dissesto ambientale, la Zona si mantiene tranquilla, come in un momento di bonaccia rispetto alle tremende rappresentazioni verbali dello Stalker. Mentre lo Scrittore ostenta scetticismo verso i timori dello Stalker, il Professore, al contrario, cerca di attenersi alle indicazioni. Questo dissidio contribuisce al mantenimento della suspense, nonostante il montaggio posato e il basso tasso di mutazioni nelle scene: i personaggi sembrano credere, chi più chi meno, all'incombenza di tremendi stravolgimenti dei manufatti o dello stesso spazio. Una carcassa di carro armato lascia intendere che una precedente intrusione militare sia stata sbaragliata.
Gran parte del film è centrato sulla descrizione e il confronto tra le personalità dei tre uomini, e sulle discussioni di stampo filosofico tra lo Scrittore e il Professore sui motivi che li conducono alla ricerca della misteriosa stanza: lo Scrittore teme di perdere la sua ispirazione, mentre il Professore desidera, a quanto sembra, vincere un premio Nobel.
Lo Stalker non l'ha mai visitata, ma non sembra allettato dal pensiero di realizzare i suoi desideri. Ciò che la guida conosce gli è stato confidato da un altro Stalker suo mentore, soprannominato Porcospino, personaggio enigmatico, suicidatosi tempo prima e citato più volte dai personaggi. Lo Scrittore comprenderà il motivo del suo gesto. Il Porcospino decise di entrare nella stanza con lo scopo di esprimere il desiderio di resuscitare suo fratello, morto in precedenza nel cosiddetto "tritacarne", il passaggio più difficile e letale della Zona, ma la stanza, che avvera i desideri più intimi e profondi, gli donò invece un'inaspettata ricchezza. Preso atto che nel profondo del suo animo tale brama era più forte persino del desiderio di riportare in vita il congiunto, il Porcospino si suicidò.
Un'inesplicabile conversazione telefonica all'interno di un edificio abbandonato, tra il Professore e un suo collega, rivela le vere intenzioni dell'uomo. Egli ha portato con sé una bomba atomica e vuole distruggere la stanza per prevenire l'uso indiscriminato e devastante dei suoi poteri. Il palesamento di tali intenzioni conduce ad una disputa con gli altri componenti del gruppo. Lo Stalker si dispera, affermando che la Zona è la sua unica risorsa. Alla fine, il Professore rinuncia al suo proposito e il gruppo si rimette in cammino. La stanza viene, infine, raggiunta; dal suo interno la cinepresa inquadra i tre uomini seduti sulla soglia senza chiarire se entreranno o meno.
Nel cinema di Tarkovskij abbiamo una narrazione rarefatta, dove pochi eventi e contesti spazio-temporali di grande respiro ma delineati in poche ed elementari unità - che formano dei blocchi altamente compatti - rendono possibile la liberazione del tempo in un modo diverso da quello della narrazione tradizionale, ove essa è fortemente incentrata, come sostiene Deleuze, sulla logica dell'azione.
In altre parole, se da un lato la logica dell'azione si incentra sulla connessione reciproca fra una qualche situazione e l'azione medesima - in modo che la situazione stessa è come un ambito di passaggio per quell'intervento dell'azione che la modifica -, dall’altro lato il tempo può essere liberato da tale logica, in un modo, come quello sperimentato da Tarkovskij, in cui si assiste alla rappresentazione arcana del magma interiore che lo stesso spettatore rifluisce nella scena riprodotta con la pellicola.
C’è una magia nelle inquadrature di Stalker che quasi ipnotizza. Al di là della durata e della sua dilatazione. Nel vuoto che si presume divenga o ritorni pieno, in quel confine che delinea tutto un sistema di attese, Tarkovskij ci descrive l’inquietudine e l’incertezza che contaminano la valenza dei paesaggi rappresentati e l'identità dei personaggi che entrano in campo.
Uno stillicidio, lento, di dubbi che conduce ad un turbamento nell’animo di chi osserva. Quasi una mistificazione nella messinscena. Nella relazione semantica - verso e da - lo spettatore, il quale rimane inerme di fronte all’ambiguità dei significati nascosti delle cose.
Stalker (Сталкер) è un film di fantascienza del 1979 diretto da Andrej Tarkovskij. Tratto dal romanzo “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij (1971), questo film rappresenta, come già Solaris, una personale interpretazione di Tarkovskij dello scritto originale.
Pur essendo di genere fantascientifico per la trama, lo svolgimento appartiene al cinema d'autore. Il lento e profondo viaggio catartico compiuto all'interno della cosiddetta zona, dove le tre diverse concezioni della vita dei protagonisti si scontrano e si mettono in discussione, trascende i dettami del film di genere.
La pellicola venne girata fra Dolgopa (Russia), Tallinn (Estonia) e Isfara (Tajikistan) nonché presso Chernobyl (Ucraina) e fu presentata al Festival cinematografico di Mosca nell'agosto del 1979 ed al Festival di Cannes, in Francia, il 13 maggio 1980. Il film uscì nelle sale italiane nella primavera 1981: la locandina recava un improbabile logo simile al titolo di Star Wars.
Un intellettuale (Anatolij Solonicyn) e uno scienziato (Nikolaj Grinko) - rispettivamente chiamati "Scrittore" e "Professore" per tutta la durata del film - si avventurano nella "Zona", un territorio rurale desolato e in rovina dove le normali leggi fisiche sono state stravolte per cause ignote. Isolata da un cordone di sicurezza governativo, in cui tuttavia gli stessi militari non osano spingersi, si vocifera che essa contenga una stanza in cui si possono avverare i «desideri più intimi e segreti»: è questo il luogo che i due uomini vogliono raggiungere. Per affrontare il viaggio con qualche sicurezza, i due ingaggiano uno "Stalker" (Aleksandr Kajdanovskij), una guida illegale esperta del territorio.
Dopo aver forzato un posto di blocco, la scena muta da un mesto bianco e nero (per l'esattezza un "seppiato") al colore. Lo Stalker condurrà il gruppo nel cuore della Zona seguendo un complicato percorso nel continuo sforzo di evitare ogni pericolo. La guida intima ai due uomini di seguire fedelmente le sue istruzioni se vogliono sopravvivere, ma a dispetto di quanto afferma e del dissesto ambientale, la Zona si mantiene tranquilla, come in un momento di bonaccia rispetto alle tremende rappresentazioni verbali dello Stalker. Mentre lo Scrittore ostenta scetticismo verso i timori dello Stalker, il Professore, al contrario, cerca di attenersi alle indicazioni. Questo dissidio contribuisce al mantenimento della suspense, nonostante il montaggio posato e il basso tasso di mutazioni nelle scene: i personaggi sembrano credere, chi più chi meno, all'incombenza di tremendi stravolgimenti dei manufatti o dello stesso spazio. Una carcassa di carro armato lascia intendere che una precedente intrusione militare sia stata sbaragliata.
Gran parte del film è centrato sulla descrizione e il confronto tra le personalità dei tre uomini, e sulle discussioni di stampo filosofico tra lo Scrittore e il Professore sui motivi che li conducono alla ricerca della misteriosa stanza: lo Scrittore teme di perdere la sua ispirazione, mentre il Professore desidera, a quanto sembra, vincere un premio Nobel.
Lo Stalker non l'ha mai visitata, ma non sembra allettato dal pensiero di realizzare i suoi desideri. Ciò che la guida conosce gli è stato confidato da un altro Stalker suo mentore, soprannominato Porcospino, personaggio enigmatico, suicidatosi tempo prima e citato più volte dai personaggi. Lo Scrittore comprenderà il motivo del suo gesto. Il Porcospino decise di entrare nella stanza con lo scopo di esprimere il desiderio di resuscitare suo fratello, morto in precedenza nel cosiddetto "tritacarne", il passaggio più difficile e letale della Zona, ma la stanza, che avvera i desideri più intimi e profondi, gli donò invece un'inaspettata ricchezza. Preso atto che nel profondo del suo animo tale brama era più forte persino del desiderio di riportare in vita il congiunto, il Porcospino si suicidò.
Un'inesplicabile conversazione telefonica all'interno di un edificio abbandonato, tra il Professore e un suo collega, rivela le vere intenzioni dell'uomo. Egli ha portato con sé una bomba atomica e vuole distruggere la stanza per prevenire l'uso indiscriminato e devastante dei suoi poteri. Il palesamento di tali intenzioni conduce ad una disputa con gli altri componenti del gruppo. Lo Stalker si dispera, affermando che la Zona è la sua unica risorsa. Alla fine, il Professore rinuncia al suo proposito e il gruppo si rimette in cammino. La stanza viene, infine, raggiunta; dal suo interno la cinepresa inquadra i tre uomini seduti sulla soglia senza chiarire se entreranno o meno.
Nel cinema di Tarkovskij abbiamo una narrazione rarefatta, dove pochi eventi e contesti spazio-temporali di grande respiro ma delineati in poche ed elementari unità - che formano dei blocchi altamente compatti - rendono possibile la liberazione del tempo in un modo diverso da quello della narrazione tradizionale, ove essa è fortemente incentrata, come sostiene Deleuze, sulla logica dell'azione.
In altre parole, se da un lato la logica dell'azione si incentra sulla connessione reciproca fra una qualche situazione e l'azione medesima - in modo che la situazione stessa è come un ambito di passaggio per quell'intervento dell'azione che la modifica -, dall’altro lato il tempo può essere liberato da tale logica, in un modo, come quello sperimentato da Tarkovskij, in cui si assiste alla rappresentazione arcana del magma interiore che lo stesso spettatore rifluisce nella scena riprodotta con la pellicola.
giovedì 26 gennaio 2012
L'ultimo terrestre
Un film del 2011, il primo diretto da Gianni Pacinotti, autore di fumetti meglio noto come Gipi. È liberamente ispirato alla graphic novel “Nessuno mi farà del male” di Giacomo Monti ed è stato presentato alla 68ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Il lavoro di Gianni Pacinotti è interessante per un duplice ordine di motivi. Il primo perché in un contesto ironico e surreale affronta il complesso tema dell’ambiguità della natura umana: l’uomo è un essere buono o cattivo? Il secondo aspetto che merita di essere sottolineato è lo stile, seguendo una approccio che è già stato avviato con successo da Paolo Sorrentino la regia privilegia la composizione e la geometria degli elementi filmici ponendo i contenuti della sceneggiatura su un piano secondario ma non per questo meno rilevante: un dialogo può essere maggiormente apprezzato quando il contesto in cui è collocato risulta più rarefatto ed al contrario può risultare danneggiato quando si rendono i personaggi più prolissi.
La storia si svolge durante l'ultima settimana prima dell'arrivo di una civiltà extraterrestre sulla Terra. L'arrivo, annunciato dai governi, passa come una notizia da seconda serata che non ha entusiasmato nessuno. Gli extraterrestri arrivano in un paese stanco e disilluso, in una crisi economica conclamata e gravissima. La gente risponde alla venuta degli extraterrestri con una reazione xenofoba ("adesso ci ruberanno il lavoro, come hanno fatto i cinesi prima di loro!") o con interpretazioni mistico religiose strampalate.
Il protagonista Luca Bertacci (Gabriele Spinelli) è un uomo con enormi problemi di relazione: abbandonato dalla madre quando era piccolo, è cresciuto nell'odio per le donne, nella diffidenza e soprattutto nell'incapacità di provare sentimenti. Questa chiusura emotiva ne ha fatto un emarginato senza passioni e senza sogni. Luca spende la sua vita tra il lavoro, barista in una sala bingo, i rari pranzi con il padre che ogni volta rinnova il suo dolore per l'abbandono della madre, "quella femmina maledetta...", e un'attrazione segreta e inconfessabile per la sua vicina di casa, un sentimento che Luca non può e non vuole permettersi e che cerca di reprimere in ogni modo. L'arrivo degli extraterrestri cambierà tutto e assumerà sempre di più le caratteristiche di una vera e propria "rivelazione" per Luca.
Questi alieni - che ricordano i "Grigi" ma si distinguono soprattutto per la loro capacità di sapere "cosa è Bene e cosa è Male" - agiscono ai margini della vicenda modificando la vita di Luca, innescando eventi che lo porteranno a scoprire una verità inaspettata e sconvolgente, fino a dargli una nuova possibilità di vita e una speranza di felicità.
In un mondo in cui le persone sono sole, hanno rapporti violenti e utilitaristici, la strada dell’ironia e della surrealtà è intelligente: evita il patetico e coglie il segno. Ma il lavoro di Gipi non è così omogeneo come il suo incipit e se qualcosa si può rimproverare alla pellicola è di non mantenere l’equilibrio stilistico nel raccontare l’anormale normalità in cui viviamo e le vere implicazioni di senso di questa accettazione, che prendono forma piena nell’incredibile avvento.
Apprezzabile la scena in cui il padre (Roberto Herlitzka) insegna all’aliena a piantare un pomodoro, per esempio, è perfetta; o ancora quella in cui l’aliena sgrana gli occhioni nel letto, al ritorno del suo “uomo” ubriaco fradicio. Meno convincente quando Gipi rappresenta in modo plateale la propria posizione sugli eventi narrati, in un modo da far venir meno il tentativo di partenza di evitare valutazioni di segno morale. Così nella scena dell’omicidio del trans (Luca Marinelli) e del salvataggio degli alieni che trasportano via il corpo senza vita del “diverso” in ossequioso rispetto, o ancora nel caso dell’incendio che divampa nella stanza d’albergo dove i due discepoli del nuovo ordine messianico si intrattengono con ragazze compiacenti e senza grosse pretese intellettuali, il regista non si limita nella rappresentazione dei fatti ma intraprende una scelta valutativa che toglie quello strato di ghiaccio sottile su cui si reggono i momenti migliori del film. In questo modo lo stesso percorso psichico del protagonista, la sua impossibilità di amare, il suo senso di colpa, la sua presa di coscienza non sembrano elementi narrati in modo coerente con le premesse, e quell’introspezione distaccata del protagonista cede il passo ad una lettura di tipo sociologica che non convince.
Insomma un bell’esordio, seppur imperfetto, con dettagli geniali non perseguiti su tutta la linea. L’ultimo terrestre è rifinito con grande gusto, ma mescola un po’ troppi toni non sempre ben accostati tra loro.
Per la cronaca va aggiunto che in occasione del film, la casa di produzione Fandango ha realizzato una campagna promozionale di marketing virale che ricorda l’esperimento “The Blair Witch Project”. Alla fine di maggio 2011 è stato creato il sito di ufologia Esseri di Luce - Visitatori dalla Pleiadi, senza alcun legame apparente con il film e con la presenza di diversi filmati di alieni. Il 6 giugno viene creato un omonimo profilo utente su YouTube da cui sono stati caricati due video su un ipotetico avvistamento di un alieno in Italia. Il 3 agosto lo stesso canale ha pubblicato un video su YouTube in cui la giornalista del TG3 Maria Cuffaro annuncia l'arrivo degli alieni. La trovata, che ricorda quella di Orson Welles del 1938, ha avuto eco anche oltre i confini nazionali e il quotidiano britannico The Guardian le ha dedicato un articolo. Il 1º settembre è stato pubblicato dal canale di YouTube della Fandango un video della trasmissione radiofonica La Zanzara in cui Giuseppe Cruciani risponde ad alcuni interventi degli ascoltatori sull'arrivo degli alieni.
La colonna sonora è tratta da Digitalism - Idealism ;)
lunedì 16 gennaio 2012
Overlooking. Oltre lo sguardo.
“Overlooking” è il titolo scelto per la retrospettiva e il convegno romano dedicati a Stanley Kubrick, si riferisce al progetto stilistico e alla visione del mondo di Kubrick, che tenta, in tutto il suo cinema, di andare oltre, over, al di là della realtà superficiale delle cose, per sperimentare uno sguardo diverso, che vede in profondità. Magari con uno sguardo strabico e paranoide, come quelli di Jack Nicholson in The Shining, di Malcom McDowell in A Clockword Organge, di Vincent D’Onofrio in Full Metal Jacket.
“Overlook” è il nome dell’hotel dove Jack Torrance e famiglia si chiudono in un ritiro che sarà incubico, ma per noi anche formula metaforica per analizzare un cinema visionario, complesso, dalle molteplici letture e interrelazioni.
<< vedere, rivedere, stravedere. Sarà possibile inventare uno stravedere come possibile ulteriore significato di to overlook >> scrive giustamente Enrico Ghezzi nel suo “castoro” dedicato a Kubrick. Si tratta infatti di un cinema che da un lato propone uno sguardo diverso (sopra, attraverso, sorvegliante, strabuzzato, aguzzo, tollerante, stregato, a seconda dei molteplici significati del verbo to overlook); dall’altro impone un “di più” anche allo spettatore, uno sguardo attento, tagliente, profondo. Sulla realtà e sul testo filmico.
Il cinema di Kubrick è dunque un cinema altamente riflessivo. Sia perché riflette sulla storia, sui generi, sulla letteratura, con un segno stilistico sempre originale e innovativo; sia perché riflette su se stesso, è autoreferenziale, propone un’indagine sul terreno del metalinguaggio.
È un cinema che sperimenta sempre, utilizzando i codici di Hollywood per poi trasgredirli inevitabilmente. È un cinema che coniuga America ed Europa, spettacolo e authorship. Kubrick percorre il viaggio inverso a quello della maggioranza degli “emigranti” cinematografici: invece che dall’Europa a Hollywood, fugge dall’America all’Inghilterra, proprio perché la sua dimensione autoriale si scontra con le regole dell’industria statunitense.
Kubrick mette in gioco la Storia, la letteratura, i generi. Dai primati di 2001: Odissea nello spazio alla Roma di Spartacus, dalla Grande guerra di Orizzonti di gloria alla bomba atomica del Dottor Stranamore, dal Vietnam di Full metal Jacket sino agli scenari futuribili di Arancia meccanica e ancora di 2001, Kubrick è sempre attento a un contesto storico che ridisegna però con i codici dei generi: il film di guerra, il mitologico, il Vietnam movie, il noir, persino, seppur in modo criptico, il western. Usa la letteratura: se si corre la filmografia di Kubrick, si vede come essa abbia un peso indiscutibile sulla sua produzione. Dal ’56 in poi, si può dire che tutti i film sono ispirati da uno spunto letterario: The killing è tratto dal romanzo Clean Break di Lionel White, Paths of glory è tratto dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, Spartacus viene dal romanzo di Howard Fast, ed è sceneggiato da Dalton Trumbo, in odore di eresia al tempo del maccartismo. Lolita è la trasposizione del romanzo di Nabokov, che firma anche la sceneggiatura del film. Dr. Strangelove, or How I learned to stop Worrying and Love the Bomb è tratto dal romanzo Red Alert di Peter George; 2001: A Space Odyssey deriva da un’idea contenuta nel racconto The Sentinel di Arthur C. Clarke – che cosceneggia con Kubrick –; A Clockword Organge è preso dal romanzo omonimo di Anthony Burgess; Barry Lindon deriva dal romanzo di Thackeray Le memorie di Barry Lindon; The shining è tratto dal romanzo di Stephen King; Full Metal Jacket è ispirato al romanzo The Short-Timers di Gustav Hasford (che partecipa alla sceneggiatura), e il prossimo film di Kubrick attinge a Doppio sogno di Schnitzeler. Dunque, da The Killing in poi, dopo i film degli esordi, tutta la produzione artistica di Kubrick parte da uno spunto letterario su cui, però, il regista costruisce delle “opere” autonome, parte per apologhi filosofici o ideologici, per irridenti satire politiche o per esercizi sul piano dell’immaginario e della fiction. E poi il rapporto con la pittura, con la musica, con la psicanalisi, con l’Altro, con la Morte, con Dio; tante ancora sono le relazioni che il cinema di Kubrick suggerisce e impone. Ma tutte vengono poi shakerate in modo originalissimo, con grande ironia e voluta ambiguità.
<< Ma è l’ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto. – ha detto Kubrick – “Spiegarli” non ha senso, ha solo un superficiale significato “culturale” buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere >>. E tuttavia – nonostante queste provocatorie dichiarazioni –, proprio con questa “ambiguità del senso”, è necessario riflettere su Kubrick, offrendo al pubblico delle nuove generazioni una preziosa retrospettiva di film (sia doppiati – doppiaggio appositamente approvato dall’Autore – che in versione originale in video), in collegamento con le iniziative della Biennale di Venezia, e lavorando in particolare sulla regia kubrickiana, con un convegno angolato appunto sulla messa in scena, sulla recitazione e sull’attore. Perché è essenziale approfondire un’indagine sulla grammatica e sulla sintassi del regista, sui meccanismi linguistici che catturano lo spettatore; e insieme sulla nozione (ben più complessa in inglese) di play, nel senso di gioco, ma anche di rappresentazione, di recitazione, di esecuzione. Viene in mente la frase allucinatoria e paranoica di Jack (Nicolson/Torrance) in The Shining “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy…” ad ibitum. Solo lavoro e niente gioco rendono Jack un ragazzo triste e scemo. Ma forse anche: il lavoro, in senso di opera, art work, senza play, in senso di possibilità di recitarla, giocarla, suonarla quest’opera artistica, rende l’uomo pazzo.
Ci pare che Kubrick significhi proprio questo: costringere lo spettatore a mettersi in gioco completamente, con le sue pratiche alte e basse, con le sue convenzioni e ironie, identificazioni ed estraniamenti; costringerlo a misurarsi con doppi e tripli livelli di lettura, a coltivare la visione (anche per esorcizzare una sempre incombente follia quotidiana), a coltivare un progetto di Cinema ambizioso, che imponga tagli teorici sempre più alti (“Overlooking” di Vito Zagarrio – Dipartimento della Comunicazione Letteraria e dello Spettacolo – Università degli Studi di Roma Tre. Palazzo delle Esposizioni, Roma, 9-18 gennaio 1998).
sabato 7 gennaio 2012
Aprimi il Cuore
Nel 2001, a ventisei anni, Giada Colagrande scrive, dirige e interpreta il suo primo lungometraggio, Aprimi il cuore. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2002, il film partecipa successivamente a numerosi altri festival internazionali, tra i quali, in concorso, il Tribeca Film Festival 2003 (New York), e Paris Cinéma 2003, dove riceve il Prix de l’avenir.
Nonostante il soggetto non sia del tutto originale (La fiammiferaia di Aki Kaurismäki del 1990; L'angelo della vendetta di Abel Ferrara del 1981; Bound - Torbido inganno dei fratelli Wachowski del 1996), e nonostante i mezzi a disposizione siano limitati, il lavoro di Giada Colagrande è un lavoro riuscito, per ciò che riguarda la sua messa in scena essenziale e per la sua valenza fotografica, se intendiamo per fotografia, prima ancora che capacità tecnica, capacità di attribuire all’immagine proiettata una valenza soggettiva e di impressionare lo spettatore.
Un’introversa diciassettenne (Caterina) vive con la sorella maggiore (Maria) in un appartamento. Le due donne vivono isolate dal resto del mondo in un rapporto esclusivo e morboso. Mentre la sorella più grande si prostituisce nell’appartamento, la piccola divide il suo tempo tra lo studio e la frequentazione di un corso di danza, ricevendo dalla sorella tutte le informazioni possibili: quelle di una madre, di un’amica, di un’insegnante ed anche di un’amante. L’esistenza di Caterina è totalmente regolata dall'ingombrante presenza di Maria, finché Giovanni, il custode della scuola di danza, affascinato dalla diversità della ragazza, riesce con uno stratagemma ad espugnare la cortina che attornia la giovane ed il suo cuore. Maria, scoperta l’attrazione tra i due, seduce Giovanni, senza riuscire tuttavia a cancellare il loro sentimento. Giovanni e Caterina arrivano a vedersi di nascosto e ad amarsi fugacemente durante le assenze di Maria, ma una sera la donna rincasa prima, scoprendoli insieme…
Finanziato con un prestito della nonna, la giovane esordiente autrice/attrice, anche con l’ausilio di Francesco Di Pace, confeziona un film trasgressivo che muove nel torbido delle pulsioni erotiche e delle perversioni sessuali.
Non condivido le critiche feroci che ha suscitato il film, non fosse altro per il coraggio dell’autrice di mostrare una dinamica torbida e morbosa di “Due sorelle. Il loro amore impossibile e la loro illusoria e fragile unità, rotta dall’irruzione di un altro amore. Una serie: di amori, di tentate fusioni e dei loro fallimenti, di dolori, di morti. Di madonne dipinte…”.
Si tratta di un tentativo, quello di un cinema che, pur nelle sue asprezze, ha il coraggio di mettersi in gioco, di denudare progressivamente l'anima dei protagonisti, di guardare ai corpi come forme di una materia da scomporre e ricomporre.
Due location: una interna (l’abitazione, set/palcoscenico da dove entrano ed escono i personaggi, ovvero i clienti di Maria), una esterna (il giardino antistante la scuola di ballo, dove Caterina trova nel mondo il sentimento nuovo ed affascinante dell’amore). Alcune costanti diegetiche: i suoni (il cigolio del letto), le associazioni/visioni (i dipinti), gli oggetti (la televisione accesa).
L’isolamento della protagonista del film è rappresentato in ogni inquadratura, da dove sembra essere volontariamente eliminato il fuori-campo. Il quadro visivo dell'inquadratura, infatti, costituisce l'unico spazio dell'immagine e della vita dei personaggi.
Per altro verso, ad essere poste al centro della rappresentazione sono, prima ancora che l’ambientazione noir, le dinamiche interiori e sessuali della protagonista, al limite tra l’erotismo e la deviazione. Nel piccolo mondo angusto dove è rinchiusa la bambina trova la relazione con un uomo adulto, come un padre e oltre che un amante; nel rapporto con la sorella la bambina trova il piacere (rassicurante della relazione incestuosa) e l’emulazione del piacere (nel gioco della prostituzione); nella solitudine della sua esistenza la bambina trova la morte, quella dei clienti e della sorella e infine l’annullamento di se stessa.
Un buon film, per la forza delle immagini ed il coraggio nella scelta degli argomenti, da segnalare per chi aspira a fare cinema, nel tentativo di opporsi alla banalità e massificazione in cui versa oggi il linguaggio cinematografico.
Nonostante il soggetto non sia del tutto originale (La fiammiferaia di Aki Kaurismäki del 1990; L'angelo della vendetta di Abel Ferrara del 1981; Bound - Torbido inganno dei fratelli Wachowski del 1996), e nonostante i mezzi a disposizione siano limitati, il lavoro di Giada Colagrande è un lavoro riuscito, per ciò che riguarda la sua messa in scena essenziale e per la sua valenza fotografica, se intendiamo per fotografia, prima ancora che capacità tecnica, capacità di attribuire all’immagine proiettata una valenza soggettiva e di impressionare lo spettatore.
Un’introversa diciassettenne (Caterina) vive con la sorella maggiore (Maria) in un appartamento. Le due donne vivono isolate dal resto del mondo in un rapporto esclusivo e morboso. Mentre la sorella più grande si prostituisce nell’appartamento, la piccola divide il suo tempo tra lo studio e la frequentazione di un corso di danza, ricevendo dalla sorella tutte le informazioni possibili: quelle di una madre, di un’amica, di un’insegnante ed anche di un’amante. L’esistenza di Caterina è totalmente regolata dall'ingombrante presenza di Maria, finché Giovanni, il custode della scuola di danza, affascinato dalla diversità della ragazza, riesce con uno stratagemma ad espugnare la cortina che attornia la giovane ed il suo cuore. Maria, scoperta l’attrazione tra i due, seduce Giovanni, senza riuscire tuttavia a cancellare il loro sentimento. Giovanni e Caterina arrivano a vedersi di nascosto e ad amarsi fugacemente durante le assenze di Maria, ma una sera la donna rincasa prima, scoprendoli insieme…
Finanziato con un prestito della nonna, la giovane esordiente autrice/attrice, anche con l’ausilio di Francesco Di Pace, confeziona un film trasgressivo che muove nel torbido delle pulsioni erotiche e delle perversioni sessuali.
Non condivido le critiche feroci che ha suscitato il film, non fosse altro per il coraggio dell’autrice di mostrare una dinamica torbida e morbosa di “Due sorelle. Il loro amore impossibile e la loro illusoria e fragile unità, rotta dall’irruzione di un altro amore. Una serie: di amori, di tentate fusioni e dei loro fallimenti, di dolori, di morti. Di madonne dipinte…”.
Si tratta di un tentativo, quello di un cinema che, pur nelle sue asprezze, ha il coraggio di mettersi in gioco, di denudare progressivamente l'anima dei protagonisti, di guardare ai corpi come forme di una materia da scomporre e ricomporre.
Due location: una interna (l’abitazione, set/palcoscenico da dove entrano ed escono i personaggi, ovvero i clienti di Maria), una esterna (il giardino antistante la scuola di ballo, dove Caterina trova nel mondo il sentimento nuovo ed affascinante dell’amore). Alcune costanti diegetiche: i suoni (il cigolio del letto), le associazioni/visioni (i dipinti), gli oggetti (la televisione accesa).
L’isolamento della protagonista del film è rappresentato in ogni inquadratura, da dove sembra essere volontariamente eliminato il fuori-campo. Il quadro visivo dell'inquadratura, infatti, costituisce l'unico spazio dell'immagine e della vita dei personaggi.
Per altro verso, ad essere poste al centro della rappresentazione sono, prima ancora che l’ambientazione noir, le dinamiche interiori e sessuali della protagonista, al limite tra l’erotismo e la deviazione. Nel piccolo mondo angusto dove è rinchiusa la bambina trova la relazione con un uomo adulto, come un padre e oltre che un amante; nel rapporto con la sorella la bambina trova il piacere (rassicurante della relazione incestuosa) e l’emulazione del piacere (nel gioco della prostituzione); nella solitudine della sua esistenza la bambina trova la morte, quella dei clienti e della sorella e infine l’annullamento di se stessa.
Un buon film, per la forza delle immagini ed il coraggio nella scelta degli argomenti, da segnalare per chi aspira a fare cinema, nel tentativo di opporsi alla banalità e massificazione in cui versa oggi il linguaggio cinematografico.
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