Osservare a distanza ravvicinata significa solo un “ingrandimento” e non consente di scoprire qualche cosa di più sul mondo. Il quale rimane uno sfuggente enigma.
Qualsiasi IMMAGINE che si da alla vista è il risultato di un processo interiore che già non è più o ancora deve essere. L’IMMAGINE è una inflessione nel monotono scandire del tempo. È luce riflessa o solo dispersa. L’illusione è credere di essere in grado di conservare l’intima essenza di quella percezione (o creazione) attraverso la rievocazione pseudo-razionale dell’immagine in se stessa e non del processo che ha condotto ad essa. Come se quella traccia, lasciata negli occhi per poco potesse essere riacquisita alla mente con il facile surrogato di un “altra_immagine”. L’attimo non è più, o non è mai stato, o non vuole essere…
Nel 1966 Michelangelo Antonioni indaga sulla possibilità che ha la tecnologia di riprodurre la realtà, interrogando l’osservatore sul labile significato delle cose. In un parco di Londra un fotografo tenta svogliatamente di trovare qualche scatto interessante e si imbatte casualmente in una coppia di amanti. Li osserva da lontano, li fotografa, poi scoperto dalla donna è costretto ad allontanarsi. Solo quando tornerà nel suo studio per sviluppare le foto si renderà conto di aver assistito ad un evento che nel momento del suo svolgersi non era altrimenti distinguibile.
Tre sono le foto selezionate, dalle innumerevoli altre, come istanti cruciali per attribuire un senso ad una vicenda che, ai suoi occhi abituati a costruire ed ottenere esclusivamente inquadrature significative, sembra non averne. Ciascuna di esse è un ingrandimento (blow-up).
La prima foto che cattura l’interesse del protagonista ritrae la coppia abbracciata. Il viso della donna, che guarda fuori campo, manifesta chiaramente segni di inquietudine. Che cosa ha attirato la sua attenzione? Il nascere di questa domanda, sia nella nostra mente di spettatori, sia in quella del protagonista, implica, sia per noi che per lui, la necessità di attribuire un senso a tutto ciò che ricade nel nostro campo percettivo. Tale è infatti la concezione della verità universalmente diffusa. Una concatenazione razionale di rapporti di causa-effetto e di corrispondenze.
Ingrandendo il punto del parco che la donna sta osservando, un’area nascosta dalla vegetazione, ecco la seconda foto e la prima possibile concatenazione semantica nonché il primo slittamento della verità. Una figura umana emerge dalla macchia e stringe nel pugno una pistola, che pare puntata in direzione della coppia. Quindi, non si tratterebbe più soltanto di due semplici amanti sorpresi in un luogo solitario. Il fotografo ritiene a questo punto, con la sua presenza, di aver sventato un omicidio.
Uno sguardo più attento ad un’altra foto fa intravedere, però, al fotografo, qualcos’altro. Altro ingrandimento – la terza foto – e nuovo slittamento della verità. La sagoma di un corpo umano emerge dai cespugli. Quindi c’è stato un omicidio, o almeno così sembra.
Più il personaggio ritiene di avvicinarsi alla verità, più questa sfugge. Ingrandire e congelare la realtà non significa necessariamente renderla più comprensibile. E forse non c’è alcuna verità raggiungibile in modo definitivo.
In altre parole, l’ambizione umana di dominare il mondo grazie alla sua riproducibilità fallisce, creando un altro mondo, fatto di immagini, forse ancora più oscuro ed indiscernibile del primo.
mercoledì 6 giugno 2012
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Grande film di un grande regista, ispirato al racconto ("Las babas del diablo) di uno scrittore altrettanto grande, Julio Cortázar.
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