"il sogno che viene visto viene reso reale dalla visione, morte è la notte senza sogni" (Maya Deren)
Nel 1943 Maya Deren, usando una cinepresa Bolex 16mm di seconda mano, realizza il suo primo cortometraggio che a distanza di anni è considerato una delle pellicole d'avanguardia più influenti della storia del cinema statunitense.
Il film segue un percorso visionario che attinge dall’onirico. Eppure, nel suo essere slegato dai paradigmi della sceneggiatura, si dota di una costruzione ciclica, dove il punto di vista dell’osservatore (o spettatore) si perde in un continuo ripercorrersi ed inseguirsi, in un movimento circolare che non trova origine e fine. Quello che rimane sono immagini, oggetti, simboli forse, nell’imperscrutabile semantico che è lo stesso sogno, come materia grezza rielaborata oltre che dal sognatore da colui che accede alla visione del sogno.
La donna è la donna che segue i propri o i passi di un destino di morte, dove pur potendo non vuole rispecchiarsi. Nello scandire del tempo, tra la musica di Teiji Itō ed il silenzio, la mdp si sofferma su dettagli, tutti rilevanti eppure tutti allo stesso tempo privi di funzione propria, proprio come nella composizione onirica che raccoglie tutto e tutto rigetta.
La lettura che ne deriva è complessa ma anche affascinante. Qualcuno potrebbe sostenere la messa in scena di un suicidio, qualcuno come un'allegoria femminista, qualcun’altro, infine, come un assemblaggio puramente estetico che si esaurisce nell’associazione di immagini e dei loro significati correlati.
Forse l’obiettivo è quello di valorizzare un cinema nuovo epurato da sovrastrutture verticali, tipiche del film di finzione e di largo consumo, dove sono i rapporti causa effetto a rendere possibile l'azione, al fine di privilegiare l'esistenza di una cinema orizzontale che scende a scandagliare il senso profondo dell'immagine, il suo valore autentico che si fonda con gli elementi presenti sulla scena.
Viene così stabilito un approccio altamente simbolico, nella messa in scena di un campo d'azione dove le cose del sogno e quelle della vita irremediabilmente si fondono, in un modo, forse angosciante, in cui il sogno traccia una trama di rimandi e di concezioni sullo spazio e il tempo.
L’assenza di suono, la stilizzazione del personaggio interpretato dalla stessa Maya e la tecnica fotografica di tipo espressionista contribuiscono a rendere l’atmosfera del cortometraggio maggiormente drammatica, ma senza perdersi nella retorica o nell’eccesso intellettualistico. Si tratta più che altro di mostrare un’allegoria, gli oggetti della vita quotidiana (un coltello, una chiave, uno specchio, un grammofono) assumono un valore ulteriore, travalicando la loro posizione nel vivere moderno per sconfinare nello spazio insondabile del nostro subconscio fino ad infrangersi (come uno specchio che si rompe e si disperde nelle onde del mare) nella visione comune delle cose.
Ultima notazione: il film compare dal 1990 all'interno dell'archivio di film preservati nel National Film Registry ed è quindi da considerare come "film culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".
giovedì 4 ottobre 2012
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