domenica 14 ottobre 2012
La double vie de Véronique
Intenso, affascinante, enigmatico. Il film del 1991 di Krzysztof Kieślowski contiene in se le linee giuda della poetica del regista polacco, morto prematuramente a 55 anni: la vita è un percorso incomprensibile se privilegiamo un approccio puramente razionale, se applichiamo alla nostra ricerca di senso i soli parametri della logica, trascurando di aprire la mente alle variabili sottese del caso o di una volontà superiore che sembrano nascoste negli avvenimenti quotidiani.
“Perché due? Durante lo spettacolo le tocco parecchio e si sciupano…”
Il tema trattato è quello del doppio: una ragazza polacca, Weronica, e una francese, Vèronique, pur non avendo nessun legame, sono uguali come gocce d'acqua, hanno lo stesso amore per la musica e la stessa malformazione al cuore. Per una misteriosa corrispondenza, la francese farà tesoro della tragica esperienza dell'altra. Eppure, nella rappresentazione del dramma, il regista si sofferma sul corpo, sulla sua energia e sul suo potere vitale. Il destino, per quanto terribile degli esseri umani, può essere governato dall’istinto e dalla spontaneità dei sensi.
“Il 23 novembre 1966 è stato il giorno più importante delle loro vite. È in quel giorno, alle tre del mattino, che sono nate tutte e due, in due città diverse, in due diversi continenti. Tutte e due avevano i capelli neri, occhi verde scuro. Quando tutte e due avevano due anni e sapevano già camminare, una si bruciò toccando il forno. Qualche giorno dopo anche l'altra avvicinò il suo dito al forno, ma all'ultimo momento lo ritirò: pertanto, non poteva sapere che si sarebbe bruciata”
Kieslowski affronta la dinamica delle coincidenze e delle opposizioni della fabula a volte indugiando sull’intensità dei sentimenti dei personaggi altre sulle tensioni del mistero come in un thriller. Nondimeno, il suo cinema è fatto di sensazioni. La fotografia è scura, seppiata, rivolta all’introspezione. La composizione privilegia ambienti chiusi e quando si pone in esterno utilizza filtri che deformano gli oggetti e le persone. I suoni sono tratti dalla realtà, in una scena addirittura estrapolati e resi con audio over per enfatizzarne la valenza nel contesto ambiguo rappresentato.
Ma quello che più conta del film è la rappresentazione dell’essere umano (donna o uomo che sia) nel senso carnale e della sua trasformazione fisica e spirituale che passa attraverso la vita e la morte e nell’amplesso – forse – trova la sua espressione più autentica. Vi sono tre scene di sesso: all’inizio della narrazione, nel mezzo e nel finale. In ogni occasione il rapporto sessuale della protagonista (la bella Irene Jacob) segna un passaggio tra una fine e un inizio, tra un mondo e un altro, soffrendo e gioendo al tempo stesso, tralasciando di comprendere quale sia il vero significato della sua sperimentazione fisica o spirituale.
Grande capacità di Kieslowski nel dotare di grazia ed insieme di sensualità l’interpretazione dell’attrice francese, naturale e leggera, capace di rendere con la sua espressività la tensione della messinscena.
Curiosità: il compositore Van den Budenmayer, citato nel film, in realtà non esiste, e la sua musica è opera di Zbigniew Preisner. Kieślowski lo usa sia nel Decalogo 9 che in Tre Colori: Film Blu.
giovedì 4 ottobre 2012
MESHES OF THE AFTERNOON
"il sogno che viene visto viene reso reale dalla visione, morte è la notte senza sogni" (Maya Deren)
Nel 1943 Maya Deren, usando una cinepresa Bolex 16mm di seconda mano, realizza il suo primo cortometraggio che a distanza di anni è considerato una delle pellicole d'avanguardia più influenti della storia del cinema statunitense.
Il film segue un percorso visionario che attinge dall’onirico. Eppure, nel suo essere slegato dai paradigmi della sceneggiatura, si dota di una costruzione ciclica, dove il punto di vista dell’osservatore (o spettatore) si perde in un continuo ripercorrersi ed inseguirsi, in un movimento circolare che non trova origine e fine. Quello che rimane sono immagini, oggetti, simboli forse, nell’imperscrutabile semantico che è lo stesso sogno, come materia grezza rielaborata oltre che dal sognatore da colui che accede alla visione del sogno.
La donna è la donna che segue i propri o i passi di un destino di morte, dove pur potendo non vuole rispecchiarsi. Nello scandire del tempo, tra la musica di Teiji Itō ed il silenzio, la mdp si sofferma su dettagli, tutti rilevanti eppure tutti allo stesso tempo privi di funzione propria, proprio come nella composizione onirica che raccoglie tutto e tutto rigetta.
La lettura che ne deriva è complessa ma anche affascinante. Qualcuno potrebbe sostenere la messa in scena di un suicidio, qualcuno come un'allegoria femminista, qualcun’altro, infine, come un assemblaggio puramente estetico che si esaurisce nell’associazione di immagini e dei loro significati correlati.
Forse l’obiettivo è quello di valorizzare un cinema nuovo epurato da sovrastrutture verticali, tipiche del film di finzione e di largo consumo, dove sono i rapporti causa effetto a rendere possibile l'azione, al fine di privilegiare l'esistenza di una cinema orizzontale che scende a scandagliare il senso profondo dell'immagine, il suo valore autentico che si fonda con gli elementi presenti sulla scena.
Viene così stabilito un approccio altamente simbolico, nella messa in scena di un campo d'azione dove le cose del sogno e quelle della vita irremediabilmente si fondono, in un modo, forse angosciante, in cui il sogno traccia una trama di rimandi e di concezioni sullo spazio e il tempo.
L’assenza di suono, la stilizzazione del personaggio interpretato dalla stessa Maya e la tecnica fotografica di tipo espressionista contribuiscono a rendere l’atmosfera del cortometraggio maggiormente drammatica, ma senza perdersi nella retorica o nell’eccesso intellettualistico. Si tratta più che altro di mostrare un’allegoria, gli oggetti della vita quotidiana (un coltello, una chiave, uno specchio, un grammofono) assumono un valore ulteriore, travalicando la loro posizione nel vivere moderno per sconfinare nello spazio insondabile del nostro subconscio fino ad infrangersi (come uno specchio che si rompe e si disperde nelle onde del mare) nella visione comune delle cose.
Ultima notazione: il film compare dal 1990 all'interno dell'archivio di film preservati nel National Film Registry ed è quindi da considerare come "film culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".
Nel 1943 Maya Deren, usando una cinepresa Bolex 16mm di seconda mano, realizza il suo primo cortometraggio che a distanza di anni è considerato una delle pellicole d'avanguardia più influenti della storia del cinema statunitense.
Il film segue un percorso visionario che attinge dall’onirico. Eppure, nel suo essere slegato dai paradigmi della sceneggiatura, si dota di una costruzione ciclica, dove il punto di vista dell’osservatore (o spettatore) si perde in un continuo ripercorrersi ed inseguirsi, in un movimento circolare che non trova origine e fine. Quello che rimane sono immagini, oggetti, simboli forse, nell’imperscrutabile semantico che è lo stesso sogno, come materia grezza rielaborata oltre che dal sognatore da colui che accede alla visione del sogno.
La donna è la donna che segue i propri o i passi di un destino di morte, dove pur potendo non vuole rispecchiarsi. Nello scandire del tempo, tra la musica di Teiji Itō ed il silenzio, la mdp si sofferma su dettagli, tutti rilevanti eppure tutti allo stesso tempo privi di funzione propria, proprio come nella composizione onirica che raccoglie tutto e tutto rigetta.
La lettura che ne deriva è complessa ma anche affascinante. Qualcuno potrebbe sostenere la messa in scena di un suicidio, qualcuno come un'allegoria femminista, qualcun’altro, infine, come un assemblaggio puramente estetico che si esaurisce nell’associazione di immagini e dei loro significati correlati.
Forse l’obiettivo è quello di valorizzare un cinema nuovo epurato da sovrastrutture verticali, tipiche del film di finzione e di largo consumo, dove sono i rapporti causa effetto a rendere possibile l'azione, al fine di privilegiare l'esistenza di una cinema orizzontale che scende a scandagliare il senso profondo dell'immagine, il suo valore autentico che si fonda con gli elementi presenti sulla scena.
Viene così stabilito un approccio altamente simbolico, nella messa in scena di un campo d'azione dove le cose del sogno e quelle della vita irremediabilmente si fondono, in un modo, forse angosciante, in cui il sogno traccia una trama di rimandi e di concezioni sullo spazio e il tempo.
L’assenza di suono, la stilizzazione del personaggio interpretato dalla stessa Maya e la tecnica fotografica di tipo espressionista contribuiscono a rendere l’atmosfera del cortometraggio maggiormente drammatica, ma senza perdersi nella retorica o nell’eccesso intellettualistico. Si tratta più che altro di mostrare un’allegoria, gli oggetti della vita quotidiana (un coltello, una chiave, uno specchio, un grammofono) assumono un valore ulteriore, travalicando la loro posizione nel vivere moderno per sconfinare nello spazio insondabile del nostro subconscio fino ad infrangersi (come uno specchio che si rompe e si disperde nelle onde del mare) nella visione comune delle cose.
Ultima notazione: il film compare dal 1990 all'interno dell'archivio di film preservati nel National Film Registry ed è quindi da considerare come "film culturalmente, storicamente o esteticamente significativo".
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