giovedì 26 gennaio 2012
L'ultimo terrestre
Un film del 2011, il primo diretto da Gianni Pacinotti, autore di fumetti meglio noto come Gipi. È liberamente ispirato alla graphic novel “Nessuno mi farà del male” di Giacomo Monti ed è stato presentato alla 68ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Il lavoro di Gianni Pacinotti è interessante per un duplice ordine di motivi. Il primo perché in un contesto ironico e surreale affronta il complesso tema dell’ambiguità della natura umana: l’uomo è un essere buono o cattivo? Il secondo aspetto che merita di essere sottolineato è lo stile, seguendo una approccio che è già stato avviato con successo da Paolo Sorrentino la regia privilegia la composizione e la geometria degli elementi filmici ponendo i contenuti della sceneggiatura su un piano secondario ma non per questo meno rilevante: un dialogo può essere maggiormente apprezzato quando il contesto in cui è collocato risulta più rarefatto ed al contrario può risultare danneggiato quando si rendono i personaggi più prolissi.
La storia si svolge durante l'ultima settimana prima dell'arrivo di una civiltà extraterrestre sulla Terra. L'arrivo, annunciato dai governi, passa come una notizia da seconda serata che non ha entusiasmato nessuno. Gli extraterrestri arrivano in un paese stanco e disilluso, in una crisi economica conclamata e gravissima. La gente risponde alla venuta degli extraterrestri con una reazione xenofoba ("adesso ci ruberanno il lavoro, come hanno fatto i cinesi prima di loro!") o con interpretazioni mistico religiose strampalate.
Il protagonista Luca Bertacci (Gabriele Spinelli) è un uomo con enormi problemi di relazione: abbandonato dalla madre quando era piccolo, è cresciuto nell'odio per le donne, nella diffidenza e soprattutto nell'incapacità di provare sentimenti. Questa chiusura emotiva ne ha fatto un emarginato senza passioni e senza sogni. Luca spende la sua vita tra il lavoro, barista in una sala bingo, i rari pranzi con il padre che ogni volta rinnova il suo dolore per l'abbandono della madre, "quella femmina maledetta...", e un'attrazione segreta e inconfessabile per la sua vicina di casa, un sentimento che Luca non può e non vuole permettersi e che cerca di reprimere in ogni modo. L'arrivo degli extraterrestri cambierà tutto e assumerà sempre di più le caratteristiche di una vera e propria "rivelazione" per Luca.
Questi alieni - che ricordano i "Grigi" ma si distinguono soprattutto per la loro capacità di sapere "cosa è Bene e cosa è Male" - agiscono ai margini della vicenda modificando la vita di Luca, innescando eventi che lo porteranno a scoprire una verità inaspettata e sconvolgente, fino a dargli una nuova possibilità di vita e una speranza di felicità.
In un mondo in cui le persone sono sole, hanno rapporti violenti e utilitaristici, la strada dell’ironia e della surrealtà è intelligente: evita il patetico e coglie il segno. Ma il lavoro di Gipi non è così omogeneo come il suo incipit e se qualcosa si può rimproverare alla pellicola è di non mantenere l’equilibrio stilistico nel raccontare l’anormale normalità in cui viviamo e le vere implicazioni di senso di questa accettazione, che prendono forma piena nell’incredibile avvento.
Apprezzabile la scena in cui il padre (Roberto Herlitzka) insegna all’aliena a piantare un pomodoro, per esempio, è perfetta; o ancora quella in cui l’aliena sgrana gli occhioni nel letto, al ritorno del suo “uomo” ubriaco fradicio. Meno convincente quando Gipi rappresenta in modo plateale la propria posizione sugli eventi narrati, in un modo da far venir meno il tentativo di partenza di evitare valutazioni di segno morale. Così nella scena dell’omicidio del trans (Luca Marinelli) e del salvataggio degli alieni che trasportano via il corpo senza vita del “diverso” in ossequioso rispetto, o ancora nel caso dell’incendio che divampa nella stanza d’albergo dove i due discepoli del nuovo ordine messianico si intrattengono con ragazze compiacenti e senza grosse pretese intellettuali, il regista non si limita nella rappresentazione dei fatti ma intraprende una scelta valutativa che toglie quello strato di ghiaccio sottile su cui si reggono i momenti migliori del film. In questo modo lo stesso percorso psichico del protagonista, la sua impossibilità di amare, il suo senso di colpa, la sua presa di coscienza non sembrano elementi narrati in modo coerente con le premesse, e quell’introspezione distaccata del protagonista cede il passo ad una lettura di tipo sociologica che non convince.
Insomma un bell’esordio, seppur imperfetto, con dettagli geniali non perseguiti su tutta la linea. L’ultimo terrestre è rifinito con grande gusto, ma mescola un po’ troppi toni non sempre ben accostati tra loro.
Per la cronaca va aggiunto che in occasione del film, la casa di produzione Fandango ha realizzato una campagna promozionale di marketing virale che ricorda l’esperimento “The Blair Witch Project”. Alla fine di maggio 2011 è stato creato il sito di ufologia Esseri di Luce - Visitatori dalla Pleiadi, senza alcun legame apparente con il film e con la presenza di diversi filmati di alieni. Il 6 giugno viene creato un omonimo profilo utente su YouTube da cui sono stati caricati due video su un ipotetico avvistamento di un alieno in Italia. Il 3 agosto lo stesso canale ha pubblicato un video su YouTube in cui la giornalista del TG3 Maria Cuffaro annuncia l'arrivo degli alieni. La trovata, che ricorda quella di Orson Welles del 1938, ha avuto eco anche oltre i confini nazionali e il quotidiano britannico The Guardian le ha dedicato un articolo. Il 1º settembre è stato pubblicato dal canale di YouTube della Fandango un video della trasmissione radiofonica La Zanzara in cui Giuseppe Cruciani risponde ad alcuni interventi degli ascoltatori sull'arrivo degli alieni.
La colonna sonora è tratta da Digitalism - Idealism ;)
lunedì 16 gennaio 2012
Overlooking. Oltre lo sguardo.
“Overlooking” è il titolo scelto per la retrospettiva e il convegno romano dedicati a Stanley Kubrick, si riferisce al progetto stilistico e alla visione del mondo di Kubrick, che tenta, in tutto il suo cinema, di andare oltre, over, al di là della realtà superficiale delle cose, per sperimentare uno sguardo diverso, che vede in profondità. Magari con uno sguardo strabico e paranoide, come quelli di Jack Nicholson in The Shining, di Malcom McDowell in A Clockword Organge, di Vincent D’Onofrio in Full Metal Jacket.
“Overlook” è il nome dell’hotel dove Jack Torrance e famiglia si chiudono in un ritiro che sarà incubico, ma per noi anche formula metaforica per analizzare un cinema visionario, complesso, dalle molteplici letture e interrelazioni.
<< vedere, rivedere, stravedere. Sarà possibile inventare uno stravedere come possibile ulteriore significato di to overlook >> scrive giustamente Enrico Ghezzi nel suo “castoro” dedicato a Kubrick. Si tratta infatti di un cinema che da un lato propone uno sguardo diverso (sopra, attraverso, sorvegliante, strabuzzato, aguzzo, tollerante, stregato, a seconda dei molteplici significati del verbo to overlook); dall’altro impone un “di più” anche allo spettatore, uno sguardo attento, tagliente, profondo. Sulla realtà e sul testo filmico.
Il cinema di Kubrick è dunque un cinema altamente riflessivo. Sia perché riflette sulla storia, sui generi, sulla letteratura, con un segno stilistico sempre originale e innovativo; sia perché riflette su se stesso, è autoreferenziale, propone un’indagine sul terreno del metalinguaggio.
È un cinema che sperimenta sempre, utilizzando i codici di Hollywood per poi trasgredirli inevitabilmente. È un cinema che coniuga America ed Europa, spettacolo e authorship. Kubrick percorre il viaggio inverso a quello della maggioranza degli “emigranti” cinematografici: invece che dall’Europa a Hollywood, fugge dall’America all’Inghilterra, proprio perché la sua dimensione autoriale si scontra con le regole dell’industria statunitense.
Kubrick mette in gioco la Storia, la letteratura, i generi. Dai primati di 2001: Odissea nello spazio alla Roma di Spartacus, dalla Grande guerra di Orizzonti di gloria alla bomba atomica del Dottor Stranamore, dal Vietnam di Full metal Jacket sino agli scenari futuribili di Arancia meccanica e ancora di 2001, Kubrick è sempre attento a un contesto storico che ridisegna però con i codici dei generi: il film di guerra, il mitologico, il Vietnam movie, il noir, persino, seppur in modo criptico, il western. Usa la letteratura: se si corre la filmografia di Kubrick, si vede come essa abbia un peso indiscutibile sulla sua produzione. Dal ’56 in poi, si può dire che tutti i film sono ispirati da uno spunto letterario: The killing è tratto dal romanzo Clean Break di Lionel White, Paths of glory è tratto dall’omonimo romanzo di Humphrey Cobb, Spartacus viene dal romanzo di Howard Fast, ed è sceneggiato da Dalton Trumbo, in odore di eresia al tempo del maccartismo. Lolita è la trasposizione del romanzo di Nabokov, che firma anche la sceneggiatura del film. Dr. Strangelove, or How I learned to stop Worrying and Love the Bomb è tratto dal romanzo Red Alert di Peter George; 2001: A Space Odyssey deriva da un’idea contenuta nel racconto The Sentinel di Arthur C. Clarke – che cosceneggia con Kubrick –; A Clockword Organge è preso dal romanzo omonimo di Anthony Burgess; Barry Lindon deriva dal romanzo di Thackeray Le memorie di Barry Lindon; The shining è tratto dal romanzo di Stephen King; Full Metal Jacket è ispirato al romanzo The Short-Timers di Gustav Hasford (che partecipa alla sceneggiatura), e il prossimo film di Kubrick attinge a Doppio sogno di Schnitzeler. Dunque, da The Killing in poi, dopo i film degli esordi, tutta la produzione artistica di Kubrick parte da uno spunto letterario su cui, però, il regista costruisce delle “opere” autonome, parte per apologhi filosofici o ideologici, per irridenti satire politiche o per esercizi sul piano dell’immaginario e della fiction. E poi il rapporto con la pittura, con la musica, con la psicanalisi, con l’Altro, con la Morte, con Dio; tante ancora sono le relazioni che il cinema di Kubrick suggerisce e impone. Ma tutte vengono poi shakerate in modo originalissimo, con grande ironia e voluta ambiguità.
<< Ma è l’ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto. – ha detto Kubrick – “Spiegarli” non ha senso, ha solo un superficiale significato “culturale” buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere >>. E tuttavia – nonostante queste provocatorie dichiarazioni –, proprio con questa “ambiguità del senso”, è necessario riflettere su Kubrick, offrendo al pubblico delle nuove generazioni una preziosa retrospettiva di film (sia doppiati – doppiaggio appositamente approvato dall’Autore – che in versione originale in video), in collegamento con le iniziative della Biennale di Venezia, e lavorando in particolare sulla regia kubrickiana, con un convegno angolato appunto sulla messa in scena, sulla recitazione e sull’attore. Perché è essenziale approfondire un’indagine sulla grammatica e sulla sintassi del regista, sui meccanismi linguistici che catturano lo spettatore; e insieme sulla nozione (ben più complessa in inglese) di play, nel senso di gioco, ma anche di rappresentazione, di recitazione, di esecuzione. Viene in mente la frase allucinatoria e paranoica di Jack (Nicolson/Torrance) in The Shining “All Work and No Play Makes Jack a Dull Boy…” ad ibitum. Solo lavoro e niente gioco rendono Jack un ragazzo triste e scemo. Ma forse anche: il lavoro, in senso di opera, art work, senza play, in senso di possibilità di recitarla, giocarla, suonarla quest’opera artistica, rende l’uomo pazzo.
Ci pare che Kubrick significhi proprio questo: costringere lo spettatore a mettersi in gioco completamente, con le sue pratiche alte e basse, con le sue convenzioni e ironie, identificazioni ed estraniamenti; costringerlo a misurarsi con doppi e tripli livelli di lettura, a coltivare la visione (anche per esorcizzare una sempre incombente follia quotidiana), a coltivare un progetto di Cinema ambizioso, che imponga tagli teorici sempre più alti (“Overlooking” di Vito Zagarrio – Dipartimento della Comunicazione Letteraria e dello Spettacolo – Università degli Studi di Roma Tre. Palazzo delle Esposizioni, Roma, 9-18 gennaio 1998).
sabato 7 gennaio 2012
Aprimi il Cuore
Nel 2001, a ventisei anni, Giada Colagrande scrive, dirige e interpreta il suo primo lungometraggio, Aprimi il cuore. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2002, il film partecipa successivamente a numerosi altri festival internazionali, tra i quali, in concorso, il Tribeca Film Festival 2003 (New York), e Paris Cinéma 2003, dove riceve il Prix de l’avenir.
Nonostante il soggetto non sia del tutto originale (La fiammiferaia di Aki Kaurismäki del 1990; L'angelo della vendetta di Abel Ferrara del 1981; Bound - Torbido inganno dei fratelli Wachowski del 1996), e nonostante i mezzi a disposizione siano limitati, il lavoro di Giada Colagrande è un lavoro riuscito, per ciò che riguarda la sua messa in scena essenziale e per la sua valenza fotografica, se intendiamo per fotografia, prima ancora che capacità tecnica, capacità di attribuire all’immagine proiettata una valenza soggettiva e di impressionare lo spettatore.
Un’introversa diciassettenne (Caterina) vive con la sorella maggiore (Maria) in un appartamento. Le due donne vivono isolate dal resto del mondo in un rapporto esclusivo e morboso. Mentre la sorella più grande si prostituisce nell’appartamento, la piccola divide il suo tempo tra lo studio e la frequentazione di un corso di danza, ricevendo dalla sorella tutte le informazioni possibili: quelle di una madre, di un’amica, di un’insegnante ed anche di un’amante. L’esistenza di Caterina è totalmente regolata dall'ingombrante presenza di Maria, finché Giovanni, il custode della scuola di danza, affascinato dalla diversità della ragazza, riesce con uno stratagemma ad espugnare la cortina che attornia la giovane ed il suo cuore. Maria, scoperta l’attrazione tra i due, seduce Giovanni, senza riuscire tuttavia a cancellare il loro sentimento. Giovanni e Caterina arrivano a vedersi di nascosto e ad amarsi fugacemente durante le assenze di Maria, ma una sera la donna rincasa prima, scoprendoli insieme…
Finanziato con un prestito della nonna, la giovane esordiente autrice/attrice, anche con l’ausilio di Francesco Di Pace, confeziona un film trasgressivo che muove nel torbido delle pulsioni erotiche e delle perversioni sessuali.
Non condivido le critiche feroci che ha suscitato il film, non fosse altro per il coraggio dell’autrice di mostrare una dinamica torbida e morbosa di “Due sorelle. Il loro amore impossibile e la loro illusoria e fragile unità, rotta dall’irruzione di un altro amore. Una serie: di amori, di tentate fusioni e dei loro fallimenti, di dolori, di morti. Di madonne dipinte…”.
Si tratta di un tentativo, quello di un cinema che, pur nelle sue asprezze, ha il coraggio di mettersi in gioco, di denudare progressivamente l'anima dei protagonisti, di guardare ai corpi come forme di una materia da scomporre e ricomporre.
Due location: una interna (l’abitazione, set/palcoscenico da dove entrano ed escono i personaggi, ovvero i clienti di Maria), una esterna (il giardino antistante la scuola di ballo, dove Caterina trova nel mondo il sentimento nuovo ed affascinante dell’amore). Alcune costanti diegetiche: i suoni (il cigolio del letto), le associazioni/visioni (i dipinti), gli oggetti (la televisione accesa).
L’isolamento della protagonista del film è rappresentato in ogni inquadratura, da dove sembra essere volontariamente eliminato il fuori-campo. Il quadro visivo dell'inquadratura, infatti, costituisce l'unico spazio dell'immagine e della vita dei personaggi.
Per altro verso, ad essere poste al centro della rappresentazione sono, prima ancora che l’ambientazione noir, le dinamiche interiori e sessuali della protagonista, al limite tra l’erotismo e la deviazione. Nel piccolo mondo angusto dove è rinchiusa la bambina trova la relazione con un uomo adulto, come un padre e oltre che un amante; nel rapporto con la sorella la bambina trova il piacere (rassicurante della relazione incestuosa) e l’emulazione del piacere (nel gioco della prostituzione); nella solitudine della sua esistenza la bambina trova la morte, quella dei clienti e della sorella e infine l’annullamento di se stessa.
Un buon film, per la forza delle immagini ed il coraggio nella scelta degli argomenti, da segnalare per chi aspira a fare cinema, nel tentativo di opporsi alla banalità e massificazione in cui versa oggi il linguaggio cinematografico.
Nonostante il soggetto non sia del tutto originale (La fiammiferaia di Aki Kaurismäki del 1990; L'angelo della vendetta di Abel Ferrara del 1981; Bound - Torbido inganno dei fratelli Wachowski del 1996), e nonostante i mezzi a disposizione siano limitati, il lavoro di Giada Colagrande è un lavoro riuscito, per ciò che riguarda la sua messa in scena essenziale e per la sua valenza fotografica, se intendiamo per fotografia, prima ancora che capacità tecnica, capacità di attribuire all’immagine proiettata una valenza soggettiva e di impressionare lo spettatore.
Un’introversa diciassettenne (Caterina) vive con la sorella maggiore (Maria) in un appartamento. Le due donne vivono isolate dal resto del mondo in un rapporto esclusivo e morboso. Mentre la sorella più grande si prostituisce nell’appartamento, la piccola divide il suo tempo tra lo studio e la frequentazione di un corso di danza, ricevendo dalla sorella tutte le informazioni possibili: quelle di una madre, di un’amica, di un’insegnante ed anche di un’amante. L’esistenza di Caterina è totalmente regolata dall'ingombrante presenza di Maria, finché Giovanni, il custode della scuola di danza, affascinato dalla diversità della ragazza, riesce con uno stratagemma ad espugnare la cortina che attornia la giovane ed il suo cuore. Maria, scoperta l’attrazione tra i due, seduce Giovanni, senza riuscire tuttavia a cancellare il loro sentimento. Giovanni e Caterina arrivano a vedersi di nascosto e ad amarsi fugacemente durante le assenze di Maria, ma una sera la donna rincasa prima, scoprendoli insieme…
Finanziato con un prestito della nonna, la giovane esordiente autrice/attrice, anche con l’ausilio di Francesco Di Pace, confeziona un film trasgressivo che muove nel torbido delle pulsioni erotiche e delle perversioni sessuali.
Non condivido le critiche feroci che ha suscitato il film, non fosse altro per il coraggio dell’autrice di mostrare una dinamica torbida e morbosa di “Due sorelle. Il loro amore impossibile e la loro illusoria e fragile unità, rotta dall’irruzione di un altro amore. Una serie: di amori, di tentate fusioni e dei loro fallimenti, di dolori, di morti. Di madonne dipinte…”.
Si tratta di un tentativo, quello di un cinema che, pur nelle sue asprezze, ha il coraggio di mettersi in gioco, di denudare progressivamente l'anima dei protagonisti, di guardare ai corpi come forme di una materia da scomporre e ricomporre.
Due location: una interna (l’abitazione, set/palcoscenico da dove entrano ed escono i personaggi, ovvero i clienti di Maria), una esterna (il giardino antistante la scuola di ballo, dove Caterina trova nel mondo il sentimento nuovo ed affascinante dell’amore). Alcune costanti diegetiche: i suoni (il cigolio del letto), le associazioni/visioni (i dipinti), gli oggetti (la televisione accesa).
L’isolamento della protagonista del film è rappresentato in ogni inquadratura, da dove sembra essere volontariamente eliminato il fuori-campo. Il quadro visivo dell'inquadratura, infatti, costituisce l'unico spazio dell'immagine e della vita dei personaggi.
Per altro verso, ad essere poste al centro della rappresentazione sono, prima ancora che l’ambientazione noir, le dinamiche interiori e sessuali della protagonista, al limite tra l’erotismo e la deviazione. Nel piccolo mondo angusto dove è rinchiusa la bambina trova la relazione con un uomo adulto, come un padre e oltre che un amante; nel rapporto con la sorella la bambina trova il piacere (rassicurante della relazione incestuosa) e l’emulazione del piacere (nel gioco della prostituzione); nella solitudine della sua esistenza la bambina trova la morte, quella dei clienti e della sorella e infine l’annullamento di se stessa.
Un buon film, per la forza delle immagini ed il coraggio nella scelta degli argomenti, da segnalare per chi aspira a fare cinema, nel tentativo di opporsi alla banalità e massificazione in cui versa oggi il linguaggio cinematografico.
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