François Truffaut, con accanto Jean Cocteau, Edward G. Robinson e Jean-Pierre Léaud. Nel 1959 all'epoca de I quattrocento colpi.

domenica 23 ottobre 2011

Cinema a confronto

Per raggiungere il suo obiettivo il linguaggio cinematografico può seguire due modalità operative: una comunicazione che privilegia l’immagine ed il suo effetto connotativo, mediante il ricorso alla scelta compositiva (fotografia) o all’assemblaggio degli elementi visivi (montaggio); ovvero una comunicazione legata al testo che scorre sotto gli occhi dello spettatore senza particolari difficoltà di analisi, dove la cura stilistica cede il passo all’elaborazione degli eventi rappresentati (sceneggiatura) o alle capacità di coinvolgimento degli interpreti (recitazione).

Forse, nella storia del cinema, solo pochi autori sono stati in grado di seguire contemporaneamente queste due direttive, valorizzando tutti gli elementi utili nella comunicazione cinematografica. Eppure, anche focalizzando l’attenzione su lavori che hanno dato preferenza all’una o all’altra soluzione stilistica, è possibile constatare come la messa a punto anche di una sola delle due opzioni non sia sempre adeguata ed efficace.

Credo significativo il confronto tra due pellicole uscite sullo schermo nel 2010. Non lasciarmi (Never Let Me Go) diretto da Mark Romanek su una sceneggiatura scritta da Alex Garland, basata sull'omonimo romanzo del 2005 di Kazuo Ishiguro, con Carey Mulligan, Andrew Garfield e Keira Knightley. 6 giorni sulla Terra diretto da Varo Venturi; sceneggiatura di Varo Venturi M. Luisa Fusconi e Giacomo Mondadori, fotografia di Daniele Baldacci, con Massimo Poggio, Laura Glavan, Marina Kazankova, Ludovico Fremont, Francesca Schiavo e Pier Giorgio Bellocchio.

Entrambi i lavori si sono cimentati con un testo di fantascienza. Entrambi, pur con le caratteristiche tipiche del cinema americano (Non lasciarmi) e del cinema italiano (6 giorni sulla terra), hanno tentato una rielaborazione del genere. Eppure, il risultato a cui le due pellicole giungono è davvero diverso, eccellente nel primo caso, davvero deludente nel secondo.



Kathy, Tommy e Ruth sono tre alunni di Hailsham, un collegio immerso nella campagna inglese e completamente isolato dal mondo esterno. La loro educazione è affidata a dei tutori, che impartiscono loro lezioni di arte, storia e letteratura e incoraggiano la loro creatività: i loro lavori migliori vengono infatti selezionati dalla misteriosa "Madame" per essere conservati nella sua "galleria". In questo ambiente, apparentemente idilliaco, i tre ragazzi crescono sviluppando un legame che durerà per tutta la vita: Ruth e Kathy stringono una forte amicizia, mentre Tommy, pur nutrendo grande simpatia per Kathy, si fidanza con Ruth. A sedici anni, completati gli studi, i tre ragazzi lasciano Hailsham per andare nei "Cottages" a completare la loro educazione per diventare prima "assistenti" e poi "donatori"; questo infatti è il loro destino sin dalla nascita: sono dei cloni umani creati in laboratorio per donare i propri organi agli umani malati. Nonostante questo i tre amici continuano a studiare e sperare in un futuro diverso, che permetta loro di trovare un lavoro normale, il vero amore, e magari un rinvio delle donazioni. L'atmosfera però non è più quella spensierata dell'infanzia, e i rapporti fra di loro iniziano a logorarsi sinché dopo un litigio Kathy non decide di abbandonare i cottages e gli amici e diventare assistente.

La storia è ambientata in un presente alternativo distopico (orwelliano si potrebbe dire) ed è raccontata sotto forma di flashback dalla protagonista del libro, Kathy. La struttura è tripartita, un epilogo (l’infanzia dei protagonisti ad Hailsham), uno sviluppo (l’adolescenza e gli amori vissuti nei cottages) un finale (con l’avvento dell’età adulta, i protagonisti della storia prendono consapevolezza del loro destino: sono condannati a morire giovani, eppure non si ribellano, non lottano, forse sognano e sperano appena in un rinvio. Ma nonostante questa consapevolezza non possono fare a meno di innamorarsi, di scrivere, di fare dell’arte a modo loro, di scrutare il mondo). L’andamento dei tempi è ben giocato, il contesto scenico valorizzato da un’ottima fotografia (sobria e mai velleitaria), con una predilezione per la geometria dei contesti rappresentati e movimenti di camera accuratamente celati. L’accompagnamento musicale è appropriato e l’interpretazione dei protagonisti, forse, il vero strumento comunicativo del film. Ridono, giocano, piangono, si disperano i tre protagonisti-attori sono sempre capaci di trasmettere l’essenza dell’oggetto rappresentato.

Si può dire un lavoro eccellente, coinvolgente e davvero ben girato. Nonostante la profondità del romanzo a cui si ispira, ed alla quale non è possibile non attribuire l’effettiva riuscita dell’adattamento cinematografico, il film riesce bene in tutte le opzioni stilistiche più sopra rammentate.



Il professor Davide Piso è un intraprendente scienziato e ufologo che studia da anni il fenomeno dei rapimenti alieni (o "alien abduction"), giungendo alla conclusione che alcune razze extraterrestri presenti da millenni sulla terra, impiantano le proprie personalità nel cervello degli umani rapiti per usarli come contenitori da abitare ed usufruire di quell’ambita energia che lui definisce “anima”. Agendo con un ingenuo e passionale ideale di salvare l’umanità, Davide, assieme alla sua capace e fedele equipe, ha sviluppato una straordinaria e temeraria tecnica ipnotica con la quale oltre a far rivivere ai rapiti le loro spaventose esperienze, riesce a comunicare con i parassiti alieni, per poi scacciarli dal corpo che occupano. Tutto cambierà quando entrerà in scena Saturnia, una seducente diciottenne che si dichiara essere un’addotta, la quale gli chiederà aiuto usando un’ambigua seduzione a cui Davide, in crisi per le serie difficoltà provocate dalla sua “scomoda” attività, non saprà resistere. Il Prof. Piso si ritroverà allora di fronte ad un caso imprevisto, più simile ad una tradizionale possessione demoniaca: una volta messa sotto ipnosi, la ragazza resterà nello stato di trance, lasciando il posto a una potente entità aliena discendente da remote e divine dinastie mesopotamiche, Exabor, il quale afferma di essere il primo essere alieno in grado di poter abitare definitivamente nel corpo di un essere umano per poter poi condurre la sua specie all’incarnazione definitiva.

Presentato dal regista, Varo Venturi, come un’opera di real-scienza (da non confondere con la banale fantascienza), “6 giorni sulla Terra” ha partecipato nel 2011 alla rassegna di cinema indipendente italiano al Macro di Roma. Realizzato con un budget limitato, il film è stato in parte ispirato dai reali studi del dottor Corrado Malanga, che tramite sedute d’ipnosi sostiene di aver raccolto testimonianze di entità aliene inserite nei corpi umani attraverso un microchip.

Eppure, il lavoro di Venturi non convince ed anzi lascia piuttosto perplessi. A ben vedere, il film risulta purtroppo mediocre sotto tutti i profili dinanzi esposti. L’approccio della regia è quello televisivo, primi piani stretti e teste mozzate; fotografia piena di eccessi, a tratti sottoesposta, quasi buia con la tendenza a virare dal giallo accesso ai toni scuri, in altri casi sovraesposta, fino a far dissolvere i dettagli; una presa diretta a tratti incomprensibile; effetti visivi improbabili; un cast forzato che anche a causa di uno script spesso confusionario e gratuitamente ’scientifico’ risulta del tutto inadeguato; un finale, vale la pena sottolinearlo, pessimo.

Il lavoro di Venturi è dunque un esperimento interessante ma non coinvolgente: un mix di ufologia e complotti governativi che purtroppo si perde fra numerosi elementi. La pur apprezzabile idea di partenza non riesce nel suo sviluppo, ed il basso budget a disposizione lascia al film di Venturi uno sgradevole effetto amatoriale che a volte rasenta il ridicolo.

Forse, viene da pensare, se il soggetto fosse finito sul tavolo di una produzione hollywoodiana poteva uscirne un lavoro di genere, magari un nuovo episodio di Chris Carter.

Per chiudere, se è vero che un buon budget sia il primo ingrediente per la riuscita di una pellicola, è altrettanto vero che quello che davvero conta è pur sempre il sapiente dosaggio delle componenti strutturali del linguaggio cinematografico. In questo senso, ritengo più apprezzabile una buona produzione che gestisca il testo con equilibrio e semplicità e dia risalto alle componenti essenziali del cinema rispetto ad un lavoro che, pur con una modesta disponibilità economica, conduca ad una messa in scena spocchiosa e inutilmente barocca.

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