mercoledì 21 settembre 2011
The Tree of Life
“Esistono due vie per affrontare la vita, la via della Natura e la via della Grazia. Sta a te scegliere quale delle due seguire”.
Terrence Malick apre il suo ultimo film con questo incipit, efficace premessa e sintesi della dicotomia di fronte a cui l’esistenza ci pone. Dicotomia le cui facce sono rappresentante dalla contrapposizione di macro e micro che da vita al film: da un parte il cosmo, dominato dalle leggi di una natura dirompente ed inesorabile, dall’altra la vicenda privata di una famiglia che ha scelto, invece, la via della “Grazia”. Poco importa se questa Grazia, come emergerà presto, è sinonimo del conservatorismo un po’ bigotto della provincia americana anni ’50, che porterà il maggiore dei tre figli a vivere un conflitto interiore, tra la dolcezza di una madre remissiva e l’educazione austera, di tipo militare, impartitagli dal padre.
L’ultimo lavoro di Terrence Malick si rapporta alla produzione cinematografica americana con alcune interessanti varianti. Se è vero che il cinema classico americano, quello hollywoodiano, è caratterizzato da uno stile i cui principi sono rimasti sostanzialmente costanti attraverso decenni, Malick altera la narrazione con elementi extradiegetici che pongono lo spettatore in una condizione instabile, al limite tra rappresentazione del reale e degenerazione visionaria.
Ciò a cui il cinema americano ha sempre mirato è il dar vita a quello che possiamo definire lo “spettatore inconsapevole” che scivola docilmente nel mondo della finzione, si proietta nella vicenda narrata, si identifica coi protagonisti del racconto, dimenticandosi di essere al cinema e di assistere a uno spettacolo finendo col confondere la realtà rappresentata sullo schermo per la realtà tout court. Ed invece, il film di Malick sembra seguire un filo non lineare e rassicurante, dove alla vicenda familiare si aggiungono immagini che provengono da un altro tempo (la scena preistorica), da un altro spazio (la galassia che raccoglie il pianeta terra), da altri punti di vista (la porta che Sean Penn attraversa nel deserto). In altre parole, il lavoro di scrittura di Malick non vuole per nulla mascherare l’oggetto principale della sua rappresentazione, ma al contrario, con l’uso di un montaggio connotativo e simbolico, intende rafforzare i valori di quella rappresentazione, pur destabilizzando lo spettatore con abili manovre di montaggio ed effetti visivi.
Per altri versi, invece, la sceneggiatura di Malick si pone in linea con la scrittura hollywoodiana che sviluppa l’argomento narrato in modo tripartito. Ed infatti, posta una premessa (il sistema di vita di una famiglia medio borghese), si transita attraverso un momento critico (dove viene messo in discussione l’equilibrio dei rapporti familiari a seguito della morte di uno dei figli), fino a giungere ad un epilogo che ha rielaborato la premessa proprio con l’apporto di quell’antitesi (il figlio maggiore raggiunge la maturità nella convinzione di aver ricevuto un’educazione incompleta che non gli ha permesso di vivere fino in fondo la perdita del fratello più piccolo).
Tale epilogo avviene nell’ennesima cornice della natura, in uno scenario suggestivo al pari delle location che popolano l’intero film: una spiaggia quieta e affollata, alla quale il figlio maggiore (Sean Penn) giunge attraversando la simbolica porta nel deserto, spartiacque fra la quotidianità del presente e un passato remoto e inafferrabile. È in questo luogo di confine, al di fuori del tempo e dello spazio e commisto con essi, in cui i fantasmi del passato sembrano perdere la loro natura opprimente per acquisire un’aura di serena accettazione, che il figlio può ricongiungersi con sua madre e suo fratello e riconciliarsi con il padre, proprio come la Grazia sembra finalmente congiungersi con la Natura e risolvere la dicotomia portante del film.
È difficile giudicare un film che, come questo, offre una molteplicità di piani di lettura, visivi e morali. Se si considera The Tree of Life sul versante puramente estetico, si tratta di un’opera di qualità elevatissima: la tecnica e l’impatto della fotografia (affidata a Emmanuel Lubezki), l’efficacia del montaggio (affidato tra gli altri a Billy Weber) costituiscono senza dubbio il punto di forza di un film che, se limitato alle pura cifra tematica, sarebbe risultato sterile e incompleto. Infatti l’impressione di fondo, nonostante la profondità d’intenti e la suggestione delle immagini, è che il regista abbia un po’ troppo tirato la corda e abbia diluito una trama già di per sé labile oltre una ragionevole misura, impiegandola come puro pretesto per dar sfogo (e di questo gliene siamo grati) all’amore per la fotografia di cui aveva già dato prova con i suoi precedenti lavori: I giorni del cielo (un film del 1978 con la fotografia magistrale di Néstor Almendros); La sottile linea rossa (film del 1998 con la fotografia di John Toll); Il nuovo mondo (un film del 2005 ancora con la fotografia di Emmanuel Lubezki). E.P. S.B.
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