Vi possono essere due prospettive per intendere e realizzare un processo di significazione cinematografica: considerare il cinema come rappresentazione della realtà nel rispetto della sua immanente ambiguità, ovvero nel rispetto dell’interpretazione soggettiva (e relativa) che di essa il soggetto definisce; oppure intendere il cinema non come semplice riproduzione del reale, ma come interpretazione dei suoi processi, così da costruire in anticipo il senso di ciò che viene rappresentato sullo schermo, ed in un rapporto per lo più coercitivo nei confronti del spettatore. Così nel primo caso è possibile, con appropriati moduli espressivi, lasciare all’autonomia del soggetto la produzione di senso del reale, mentre, nel secondo, istituire il montaggio come strumento idoneo alla re-interpretazione della realtà, attribuendo centralità alla dialettica delle immagini ed alla produzione di senso che preventivamente si è intesa realizzare.
Si potrebbe allora definire il montaggio interno come tecnica di non-montaggio, laddove la rappresentazione del reale avviene nel rispetto delle sue caratteristiche essenziali, ovvero nel rispetto fotografico della continuità spazio-temporale; nella realtà nessun avvenimento deve essere dotato di un senso determinato a priori; l’obiettivo è quello di catturare filmicamente l’immanente ambiguità del reale.
Gli strumenti che consentono una lettura naturalistica del reale sono la profondità di campo e il piano sequenza: il P.S. è un piano che da solo svolge le funzioni di una sequenza o scena (mobilità delle forme); con la P.di C. si realizza, invece, la disposizione degli oggetti e dei personaggi su più piani e insieme il loro reciproco interagire (staticità dei contenuti).
Il montaggio connotativo si pone, invece, come creazione di senso su variabili audio-visive. Ciò avviene mediante un’interpretazione del senso del reale; la realtà non come riproduzione meccanica dei fenomeni ma interpretazione dell’articolazione delle sue relazioni interne; il montaggio come produzione di senso, come collisione tra inquadrature e piani (l’uno accanto all’altro, l’uno contro l’altro); il montaggio oltre che come rapporto/conflitto tra piani, come conflitto compositivo all’interno della stessa inquadratura; la produzione di senso anche nella costituzione dei rapporti audio-visivi.
In definitiva, il montaggio dialettico (o connotativo) è un montaggio che si struttura sulla base di un conflitto, che si da in tutta la sua evidenza e il cui fine principale è quello della significazione.
Per S.Ejzenstein il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è in qualche modo un nucleo, una cellula di montaggio, che va soggetta alla legge della scissione con il crescere della tensione del conflitto. Il montaggio è un salto di qualità della composizione interna dell’inquadratura.
L’attrazione è per noi qualsiasi fatto presentato, noto e verificato, inteso come impulso che esercita un determinato effetto sull’attenzione e l’emozione dello spettatore in una determinata direzione, indicata dal fine che lo spettacolo si propone. Da questo punto di vista il film non può limitarsi al semplice far vedere, alla presentazione, cioè, di certi avvenimenti: deve essere, piuttosto, una selezione tendenziosa di eventi, liberi da compiti strettamente narrativi e tali da esercitare sul pubblico un modellaggio psicologico conforme al fine perseguito.
Per altro verso, opposto si potrebbe dire, è possibile sostenere la scelta documentaristica, come espressione della realtà nel suo aspetto causale e inevitabile. In questo senso il cinema vuole provocare un interesse nello spettatore senza artifici o ri-costruzioni “barocche”, in un modo semplicemente “sincero”.
Per Joris Ivens – uno dei più importanti documentaristi della storia del cinema forse – è il “qui e ora” ciò che definisce la cartina di tornasole della sensibilità del cineasta. La camera fissa l’attimo, senza altri accorgimenti.
Eppure, non è solo questo. Il cineasta deve sempre avere presente a che cosa deve servire il film che si sta facendo, perché e per quale pubblico si realizza. Così emblematicamente viene affermato che il cineasta deve avere tre occhi: un occhio guarda la realtà attraverso il mirino della cinepresa; mentre l’altro rimane spalancato su tutto quello che succede intorno alla piccola immagine racchiusa nell’inquadratura. Un terzo occhio, se così si può dire, deve essere rivolto al futuro.
martedì 27 aprile 2010
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