
A ben guardare è l'adulterio tradizionale (diciamo così) di tipo borghese. L'adulterio cioè consumato per inquietudine bovaristica. Questo non è nuovo in Antonioni il quale viene dalla borghesia e ne interpreta la crisi. Nuovo semmai è il ricorso esplicito alla nevrosi cioè ad una condizione morbosa che interessa più la medicina che la cultura, con la correzione però di proiettarne i sintomi su uno sfondo, appunto, culturale. Così Deserto rosso è la descrizione d'una nevrosi che, come avviene sovente oggi, s'innesta direttamente nella situazione storica dell'alienazione di origine capitalistica e industriale. Semplice malattia ai tempi di Charcot, la nevrosi, nel film di Antonioni, diventa facilmente condizione umana. Gli è che mentre la nevrosi è rimasta quella che era, la storia o quello che di solito si chiama storia, s'è mossa e l'ha investita d'un significato che un tempo non aveva.
Il paragone con certi film di Bergman potrebbe tuttavia illuminarci sopra il carattere specifico dell'operazione di Antonioni. Si vedrebbe allora che Antonioni è più moderno di Bergman nel senso di rappresentare e far parte d'una società nella quale il processo dissolutivo è più avanzato che in quello del regista svedese. Anche Bergman descrive una nevrosi: ma pur non cadendo in una caratterizzazione clinica di tipo positivistico e conservando le implicazioni culturali, mette una distanza oggettiva di specie naturalistica tra lui e il personaggio. In Deserto rosso, invece, Antonioni s'identifica con la protagonista. In realtà non è il personaggio di Antonioni ad avere paura bensì, sia pure con le attenuazioni e i filtri propri dell'arte, Antonioni stesso. Diremo con questo che Antonioni è nevrotico? Non lo diremo certamente, diremo piuttosto che non c'è in lui né la volontà né l'aspirazione a mettersi fuori della nevrosi, cioè a dare un nome alla crisi storica che purtuttavia egli indica chiaramente come la vera causa della malattia. Con ostinazione Antonioni si tiene dentro i limiti del suo personaggio: vuol farci credere che non ne sa un punto più della sua adultera borghese. In questo modo riesce è vero a sfuggire alla tentazione ideologica: ma rischia però di cadere nell'astrazione d'un continuo stupore di specie onirica.
Nel film di Antonioni ci sono due realtà, quella degli uomini e quella delle cose. Nelle cose è trasferita l'angoscia degli uomini i quali, forse per questo, risultano, rispetto alle cose, svuotati, casuali, descritti in aneddoti di scarsa incisività.
Nessun volto umano in Deserto rosso è così mistico e reale come i pezzi di muro, i tubi, le cartacce e gli altri innumerevoli oggetti sui quali l'obbiettivo di Antonioni indugia con una attenzione meditabonda, luicida, delirante. Gli è che Antonioni vede il mondo attraverso gli occhi della protagonista; e questa mentre ha rapporti nutriti con le cose, non ne ha nessuno con gli uomini. Antonioni non vuole sporcarsi le mani con la psicologia, questa fangosa facoltà soltanto umana; e così si dedica con passione alle cose. Senza dubbio Deserto rosso è il film italiano nel quale il colore è stato adoperato sinora con maggiore eleganza, capacità plastica, maestria: senza dubbio Antonioni non aveva mai fatto dire alle cose, ci si consenta il bisticcio, tante cose. Ma come nelle rappresentazioni della pittura informale e della decorazione musulmana, si direbbe talvolta che in Deserto rosso la figura umana sia di troppo. Tant’ è che le parti più belle sono quelle, come per esempio la sequenza della favola, in cui l'azione, già tenue, s'interrompe del tutto. Monica Vitti è, con bravura e intensità, la protagonista e bisogna riconoscere che la sua nevrosi è credibile e al tempo stesso non compromette la sincerità e violenza del breve rapporto d'amore. Accanto a lei Richard Harris, l’amante, una parte difficile, riesce ad essere molto efficace.
Alberto Moravia
L'Espresso
1/11/1964